Cosa succede se si affidano i versi della più sensibile e visionaria delle poetesse agli algoritmi di un traduttore automatico? Su ilLibraio.it la postfazione della traduttrice Martina Testa a un volume unico nel suo genere, “Charter in delirio! – Un esperimento con i versi di Emily Dickinson”

Cosa succede se si affidano i versi della più sensibile e visionaria delle poetesse agli algoritmi di un traduttore automatico? Accade che le parole esplodono nell’assurdo e i significati si moltiplicano verso direzioni imprevedibili, che oscillano vertiginosamente tra il reale e il meraviglioso, il grottesco e il sogno.
Così, con irresistibile effetto comico, nel libro Charter in delirio! – Un esperimento con i versi di Emily Dickinson – Testi scelti con traduzione automatica a fronte (Elliot, a cura di Marzia Grillo; postfazione di Martina Testa), il mondo della poetessa si popola di charter in delirio, piste di peluche, zuppe inglesi e bandiere gay, mentre il suo immaginario fatto di api e di fiori, ebbrezza ed eternità viene assalito dai tecnicismi dell’informatica, dello sport e dell’economia.

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, la postfazione di Martina Testa:

Innanzitutto una confessione: prima di aprire questo libro non avevo mai letto Emily Dickinson. Se non forse qualche poesia sparsa, molti anni fa: ma la mia copia del volumetto Silenzi, Feltrinelli 1999, sembra talmente intonsa che mi chiedo se all’epoca, dopo averla comprata, l’avessi mai davvero aperta; del resto non sono mai stata una lettrice di poesia, né di letteratura dell’Ottocento. Insomma, al momento in cui ho ricevuto le bozze di Charter in delirio! per me Emily Dickinson era solo una proverbiale reclusa, autrice dei versi “Questa è la mia lettera al mondo / che mai scrisse a me”: di lei in pratica non sapevo altro. Proprio questa colpevole ignoranza, però, mi provocava una forma di attrazione verso il libro; se quello di mettere insieme una serie di poesie della Dickinson passate per un traduttore automatico era un insolito esperimento di rielaborazione di un testo letterario, quello di avvicinarvisi senza minimamente conoscere gli originali poteva essere a sua volta un insolito esperimento di lettura: che effetto mi avrebbe fatto leggere con occhi vergini un classico non nella sua forma canonica, ma imprevedibilmente alterato da un meccanismo di traslazione linguistica e semantica che – pur essendo stato creato da uomini – prescinde da una sensibilità propriamente umana? L’esperimento mi tentava ancora di più in quanto lavoro da ormai più di quindici anni come traduttrice letteraria; pur essendo del tutto digiuna dell’opera di Emily Dickinson, ho dimestichezza quotidiana con la pratica della traduzione (in particolare, proprio dall’inglese all’italiano), e per di più solo poche settimane prima mi era capitato di sentir dire da un amico e collega una frase del tipo: “… Sempre sperando che il traduttore automatico di Google non ci tolga il lavoro”. Ero rimasta sconcertata: non si era sempre dato per assodato che i traduttori automatici fossero poco più di una barzelletta? A mia insaputa, Google Translate aveva fatto passi da gigante e il mio futuro professionale era davvero in pericolo? O il mio amico stava solo scherzando? Leggere queste pagine magari mi avrebbe dato indizi per capirlo meglio. Ecco allora la cronaca del mio esperimento.

La prima lettura è stata prevedibilmente traumatica. Con buona pace di chi considera – o anche proprio vive, istintivamente, nel compierlo – il lavoro di traduzione come una forma di creazione artistica, io l’ho sempre visto come un’attività artigianale, l’applicazione di una tecnica: tradurre per me significa costruire un dispositivo in grado, dato un input, di restituire un output equivalente, ossia di trasformare il testo di partenza in un testo di arrivo che trasmetta al lettore italiano le stesse informazioni, suggestioni, emozioni ecc. che l’autore straniero voleva trasmettere nel momento in cui scriveva; un testo il più possibile omologo a quello di partenza come significato, ovviamente, ma anche come registro, ritmo, capacità allusive e via dicendo. Quando traduco mi sembra di costruire una macchina, un meccanismo che deve funzionare in maniera il più possibile efficiente; e di farlo compiendo una sequenza di operazioni logiche (principalmente, di selezione ed esclusione di varianti magari molto simili ma non del tutto identiche fra loro); per me il processo della traduzione è fondamentalmente algoritmico. Data questa mia forma mentis, mi affascina l’idea di un traduttore automatico, di un programma che sappia ricostruire e riprodurre i passi sofisticati e rapidissimi che compie via via il mio cervello e che a me rimangono in buona parte misteriosi. Il problema è che, basta pochissimo per accorgersene, il traduttore automatico di Charter in delirio! costruisce una macchina inefficiente e imperfetta. Il meccanismo si inceppa. La prima impressione è stata quindi quella di un gioco violento: nella traduzione automatica spesso il senso si perde, gli errori frantumano il testo; il risultato è una serie di strappi e di lacerazioni a cui ho reagito con lo stesso istintivo fastidio con cui si ascolta un disco che salta o una stazione radio piena di interferenze: sentivo subito la mancanza del suono pulito, del senso originario; e infatti l’occhio mi correva continuamente al testo inglese a fronte, e la mente andava d’istinto a ripristinare la traduzione “giusta” (ammesso e non concesso che ne fosse capace: mi sono subito resa conto che la poesia della Dickinson è di un’infinita complessità, e che tradurla “bene” è opera ardua anche per un traduttore umano ed esperto). In effetti, ho pensato, è un triste destino ben noto e condiviso da tutti i miei colleghi: di una qualunque traduzione, ciò che salta prima e soprattutto agli occhi del lettore sono gli errori.

La seconda lettura è stata una ricognizione: armata di matita, ho variamente cerchiato, sottolineato ed evidenziato gli errori del traduttore automatico, classificandoli e osservandoli. Cos’è esattamente, volevo capire, che il traduttore non sa fare, dove sbaglia, come sbaglia? In molti casi, il problema è il mancato riconoscimento della funzione grammaticale o sintattica di una certa parola. Il traduttore automatico non sa interpretare but nel senso di “soltanto” (p. 10; p. 22); non sa capire se building è sostantivo o verbo (p. 14), se level o gay è sostantivo o aggettivo (p. 36, p. 38), a volte associa erroneamente un attributo a un nome (curious, p. 32); vede until esclusivamente come preposizione e non sa intenderlo come congiunzione in grado di reggere un’intera frase (p. 36). Di tanto in tanto fa confusione – comprensibilmente, dato la quasi assoluta mancanza di coniugazione nel sistema verbale inglese – fra i diversi modi del verbo e le diverse persone (il risultato più surreale è il verso in cui, non distinguendo fra seconda e terza persona dell’imperativo, il traduttore automatico finisce per dare del “lei” al mare, p. 28); i phrasal verbs, cioè i verbi composti con preposizioni o particelle, lo mandano particolarmente in tilt, come anche le costruzioni in cui l’infinito è posposto al complemento oggetto (my fantasy to please, p. 32; my velvet life to close, p. 38). Più numerosi sono però gli errori lessicali, i casi in cui il traduttore automatico sceglie per una determinata parola un significato teoricamente corretto ma inappropriato rispetto alle intenzioni dell’autrice: trifle diventa “zuppa inglese” invece che “sciocchezza” (p. 11), fold “piega” invece che “ovile” (p. 15), degree “laurea” invece che “grado, livello” (p. 19), e wilt viene interpretato come “appassire” invece che come l’arcaica terza persona della forma will (p. 29). Sono questo tipo di errori i più interessanti e per certi versi rivelatori, quelli che causano un’intrusione surreale della modernità nella lingua della Dickinson: “Natura nel patrimonio netto la rosa ha ordinato!”; “Certa sono io dello spot”, e via dicendo. La poesia ottocentesca si infarcisce di anacronismi: siti web e prese di corrente, auto, album musicali, bar, bandiere gay e voli charter. Assistiamo alla metamorfosi della lingua nel tempo: sleep, “sonno”, diventa “spegnimento” (p. 25), come quando indica la funzione di messa in stand-by di certi apparecchi elettronici; lay off da “lasciare, deporre” passa al significato, oggi comunissimo, di “licenziare” (p. 43). È curioso, ma forse non troppo sorprendente, notare con quanta frequenza in queste pagine la risemantizzazione avvenga verso i campi della tecnologia e dell’informatica: nel caso di termini come il già citato sleep, ma anche di array, cart, scan; addirittura, quando il traduttore automatico si imbatte in foxglove, traduce correttamente il sostantivo ma gli attribuisce genere maschile, trasformando la “porta della digitale”, ossia la corolla di un fiore da cui le api succhiano il nettare, in un’avveniristica “porta del digitale” (p. 23). Non sapendo assolutamente nulla su come venga programmato un traduttore automatico, non sono in grado di dire perché scelga di tradurre burs come “frese” invece che come “lappole” (p. 33), o nuts come “dadi” invece che come “nocciole” (p. 31), prediligendo significati meno comuni e prescindendo dal contesto pur di spostarci bruscamente dalla contemplazione di un bosco a quella dello scaffale di un ferramenta. Ammetto però che, nel corso della seconda lettura, a un certo punto ho smesso di chiedermelo e ho deciso che un traduttore automatico è legittimamente dotato di una sua lingua personale, fatta di parole ed espressioni che, in qualche modo, “sente usare” più spesso e che gli sono familiari: proprio come un traduttore, o un parlante qualunque, che padroneggia la lingua nazionale ma conosce anche una lingua regionale, e soprattutto ha nell’orecchio una sua lingua familiare e addirittura personale composta dei modi di dire e dei gerghi – professionali o colloquiali che siano – dei gruppi di individui in mezzo ai quali vive le sue giornate. E allora, a partire dall’analisi delle sue scelte linguistiche, mi sono divertita a immaginare che il traduttore automatico di queste pagine fosse un nerd, o più specificamente un geek, un patito di tecnologia e informatica; che avesse confidenza con arnesi, sport e fenomeni economici; che tendesse al concreto piuttosto che all’astratto e fosse piuttosto alieno agli slanci sentimentali. Un maschio, mi veniva stereotipicamente da pensare – che in breast legge sempre “seno” e mai semplicemente “petto” – ma non omofobo, se ha tale dimestichezza con la cultura queer da tradurre la parola bears con “Orsi” anziché riconoscerla come voce del verbo “portare” (p. 27).

E poi è andata così: una volta costruita attorno al traduttore automatico una sorta di ipotetica personalità, ho cominciato a riconoscergli anche delle doti di poeta: la terza lettura è stata quella in cui, messo da parte il rigore della razionalità, ho smesso di pensare alla traduzione come macchina più o meno funzionante e ho goduto puramente della bizzarria del testo di arrivo, che a volte raggiunge effetti di insospettabile grazia. Ci sono soluzioni ritmiche che sembrano, nella loro semplicità, perfettamente riuscite: ad esempio la coppia di settenari “Ho derubato il bosco / il bosco fiducioso” o l’endecasillabo “La guancia della bacca è più paffuta”, o i due endecasillabi “Mi gusto un liquore mai prodotto / da boccali scavati nella perla”. In questi casi la traduzione è, per di più, del tutto corretta, e il traduttore automatico risulta (attimo di sgomento) ineccepibile. Chiaramente (meno male) sono una minoranza dei casi, ma anche laddove il traduttore sbaglia, non mancano gli esiti godibili. Come il distico “Non ho mai visto un Moro / non ho mai visto il mare”, in cui il fraintendimento lessicale (nel primo verso, Moor in realtà stava per “brughiera”) viene compensato dall’effetto fonico. E sempre da traduzioni errate vengono fuori accostamenti di immagini spiazzanti ed evocativi che non faticherei troppo a chiamare poetici:

la zuppa inglese / definita mortalità

il sito web di tessuto vivo

il primo campionato fuori dalla terra

brividi di api e acquisti di farfalla

treni d’auto su piste di peluche

e ovviamente, al posto del “delirante contratto” di cui intendeva parlare la Dickinson, charter in delirio!

In queste occasioni, il traduttore automatico crea brandelli di testo che rovesciando qualunque aspettativa del lettore ridefiniscono il mondo e ne disegnano uno alternativo; un po’ come i sonetti quattrocenteschi del Burchiello (il cui “Nominativi fritti, e mappamondi” resta uno dei miei versi preferiti nell’intera letteratura italiana). Questa potenzialità di sovversione, nata ovviamente senza alcun reale intento dall’attività impersonale di un software, mi è parsa il risultato più gustoso dell’esperimento di lettura: Charter in delirio! mi ha offerto l’ennesimo esempio delle infinite possibilità delle parole, simboli che, a forza di traslazioni e ricombinazioni, sono in grado di smontare e rimontare interi mondi. Se uno degli scopi della poesia è quello di creare meraviglia, queste traduzioni automatiche, loro malgrado, di quando in quando lo raggiungono in pieno.

Il gioco finisce qui; ma la terza lettura ne ha chiamata una quarta, e cioè quella della poesia di Emily Dickinson nella sua forma reale. Dopo averne letto e riletto, di volta in volta con fastidio, con acribia e con spassionato divertimento, questa versione distorta e remixata viene spontaneo voler tornare (o attingere per la prima volta, nel mio caso) alla fonte: così ho rimesso mano alla mia vecchia edizione di Silenzi e mi sono procurata anche l’opera completa nell’edizione dei Meridiani Mondadori, e ho cominciato, meglio tardi che mai, a scoprire quest’autrice visionaria e provocatoria. In fondo, una delle cose più preziose che riescono a fare i libri non è metterci voglia di leggere altri libri?

Tratto da Charter in delirio!
Un esperimento con i versi di Emily Dickinson
Elliot edizioni, 2016
© 2016 Lit Edizioni Srl
Per gentile concessione.


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