Prendersi cura dei nostri figli è ciò che ci rende più umani. Eppure negli ultimi decenni ha preso sempre più piede un insidioso processo di professionalizzazione della genitorialità. Su ilLibraio.it un capitolo dal saggio “Essere genitori non è un mestiere” di Alison Gopnik, una delle più importanti psicologhe infantili della scena internazionale

Alison Gopnik, docente di Psicologia e professore associato di Filosofi a presso la University of California a Berkeley, è riconosciuta come un’autorità a livello internazionale nel campo dell’apprendimento e dello sviluppo infantile. Torna nelle librerie italiane con un saggio molto attuale, pubblicato da Bollati Boringhieri: Essere genitori non è un mestiere.

Gopnik, una delle più importanti psicologhe infantili al mondo, nel saggio sintetizza il suo pensiero innovativo e fortemente empatico, frutto di decenni di ricerche scientifiche d’avanguardia e della sua stessa esperienza di madre e di nonna.

Prendersi cura dei nostri figli è ciò che ci rende più umani. Eppure negli ultimi decenni ha preso sempre più piede un insidioso processo di professionalizzazione della genitorialità: c’è un’intera industria miliardaria che cerca di convincere madri e padri in tutto il mondo a educare i propri figli usando “metodi” precisi per far sì che abbiano “successo” nella vita. Ma questa moda è profondamente sbagliata, secondo Gopnik, per molte ragioni.

Basandosi su approfonditi studi evolutivi e su ricerche sull’attitudine dei bambini ad apprendere, questo libro difende l’importanza del ruolo protettivo dei genitori, un istinto profondamente radicato negli esseri umani. Tuttavia Gopnik ammonisce: essere genitori non è un mestiere attraverso il quale si possa ottenere un “risultato” prestabilito. I bambini sono per loro natura fantasiosi, stupendamente inventivi e giocosi, e sono sempre molto diversi dai loro genitori. Quello che sarà il loro mondo da adulti è imprevedibile e la loro strada la dovranno trovare da sé. Quanto più i genitori saranno in grado di lasciarli sviluppare autonomamente, in un ambiente armonioso e ricco d’amore, tanto più facilmente ogni bambino potrà usare le proprie risorse per far fronte alle sfide che incontrerà lungo il cammino.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto dal libro

Il giardino

Per descrivere l’unicità della relazione con i bambini una vecchia metafora è forse la più adatta: prendersi cura dei figli è come coltivare un giardino ed essere un genitore è come essere un giardiniere. Nel modello della genitorialità intesa come «mestiere», essere un genitore è come essere un falegname. Certo, si deve prestare attenzione al tipo di materia prima con cui si sta lavorando, che potrebbe influire in qualche modo sul risultato che si cerca di ottenere, ma essenzialmente il lavoro consiste nel modellare quel materiale in un prodotto finale che corrisponda allo schema che si aveva in mente all’inizio. E si può valutare la qualità del lavoro svolto in base al risultato ottenuto. Le porte chiudono bene? Le sedie sono solide? Disordine e variabilità sono i nemici di un falegname, precisione e controllo i suoi alleati. Prendi le misure due volte, e poi taglia. Quando invece curiamo un giardino creiamo uno spazio protetto e ricco di nutrimento in grado di fare crescere le piante rigogliose. Occorre molto impegno e molta fatica, molto tempo passato a scavare nella terra e a sporcarsi le mani di letame. E, come tutti gli appassionati di giardinaggio sanno bene, i nostri progetti vanno sempre di traverso. Il papavero viene fuori arancio acceso anziché rosa pallido, la rosa che doveva essere rampicante si ostina a restare a mezzo metro da terra, afidi e macchie nere sulle foglie richiedono una lotta che non ha mai fine.


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Eppure la soddisfazione deriva dal fatto che nell’attività orticolturale capita di ottenere dei risultati spettacolari anche quando il giardino sfugge al nostro controllo, quando la rosa bianca va inaspettatamente ad arrampicarsi sul tronco scuro del tasso, quando una giunchiglia dimenticata corre sottoterra fino alla parte opposta del giardino e crea un’esplosione di giallo in mezzo ai nontiscordardimé, quando la vite che doveva crescere disciplinata sulla pergola lancia i suoi rami rossi sulle piante tutt’intorno. Simili incidenti, a ben vedere, sono indice di buon giardinaggio. Esistono dei tipi di orticoltura dove lo scopo è ottenere un risultato preciso, come le orchidee coltivate in serra o i bonsai, e che richiedono delle capacità analoghe a quelle di un falegname. Non a caso in Gran Bretagna, patria del giardinaggio, viene chiamato hothousing, «coltura in serra», quel tipo di modalità genitoriale ansiosa, pressante e iperprotettiva tipica di quei genitori della classe media che gli statunitensi chiamano invece helicopterparents, «genitori elicottero», sempre sopra i propri figli e pronti a provvedere ai loro bisogni, indipendentemente dall’effettivo bisogno dei figli di vedersi risolti tutti i problemi, spesso prima ancora che si presentino. Ma immaginiamo di creare un giardino cosiddetto all’inglese, caratterizzato da un impianto in libertà della vegetazione. Qui la bellezza sta nel disordine, arbusti e fiori diversi possono crescere rigogliosi o morire al mutare delle circostanze, e non c’è la garanzia che ogni singola pianta diventi la più alta, la più ricca o quella che fiorisce più a lungo. In un contesto del genere, il buon giardiniere punta a creare un suolo fertile che possa sostentare un intero ecosistema di varietà differenti con differenti punti di forza e di bellezza, e anche con differenti debolezze e criticità. Al contrario di una buona sedia, un buon giardino è in costante trasformazione, e sa adattarsi ai cambiamenti del tempo e delle stagioni. E, sul lungo termine, quel genere di sistema dinamico complesso, variegato, flessibile sarà più robusto e adattabile del fiore coltivato in serra con la massima cura. Essere un buon genitore non trasforma i figli in adulti intelligenti, felici o di successo, però può contribuire a creare una nuova generazione che sia più robusta, adattabile e resiliente,maggiormente capace di gestire gli inevitabili e imprevedibili cambiamenti che dovrà affrontare in futuro.


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Il giardinaggio è rischioso e spesso doloroso. Ogni giardiniere conosce la sofferenza di vedere la più promettente delle piantine appassire inaspettatamente. Ma l’unico giardino che non corre questi rischi, che può essere curato senza mai soffrire, è un giardino fatto di erba artificiale e fiori di plastica. La storia dell’Eden è una buona allegoria dell’infanzia. Da piccoli cresciamo in un giardino pieno di cure e di amore, un giardino che, nella sua versione migliore, è così stabile e ricco da non lasciare nemmeno immaginare, ai bambini che lo abitano, quanto lavoro e quante preoccupazioni abbia richiesto. Da adolescenti entriamo in contatto sia con la conoscenza e la responsabilità, sia con la fatica e la sofferenza, compresa la fatica letterale e metaforica dei genitori di fare arrivare nel mondo un’altra generazione di giovani. La nostra vita non sarebbe pienamente umana senza entrambe queste fasi: paradiso terrestre e caduta, innocenza ed esperienza. Naturalmente, anche se quando sono piccoli i nostri figli ci ritengono onnipotenti e onniscienti, noi genitori siamo anche troppo dolorosamente consapevoli di essere ben lontani dall’avere potere e autorità divine. Tuttavia i genitori ‒ sia quelli biologici sia tutti coloro che si prendono cura di bambini ‒ sono allo stesso tempo testimoni e protagonisti di questo aspetto tanto pregnante della storia umana. E questo di per sé fa sì che valga la pena essere genitori. Dunque il nostro compito di genitori non è quello di produrre un particolare tipo di figli, bensì quello di garantire uno spazio protetto fatto di amore, sicurezza e stabilità nel quale possano prosperare molti imprevedibili tipi di figli. Il nostro compito non è quello di plasmare la mente dei nostri bambini, ma di permettere alla loro mente di esplorare tutte le possibilità che il mondo offre. Il nostro compito non è di dire ai nostri figli come giocare, ma di dare loro i giocattoli e di rimetterli a posto quando hanno finito. Non possiamo fare imparare i bambini, possiamo soltanto lasciare che imparino.

© 2016 Alison Gopnik/ © 2017 Bollati Boringhieri editore, Torino/ Traduzione di Giuliana Olivero

(continua in libreria…)


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