Un approfondimento sull’opera dei fratelli Dardenne a partire dal loro ultimo lavoro, “L’età giovane”, vincitore del premio miglior regia al Festival di Cannes 2019. Il film tratta, almeno in superficie, il radicalismo islamico, ma soprattutto la battaglia interiore di un’adolescenza e il senso del perdono. Il cinema dei Dardenne ci lascia nello spazio della nostra responsabilità, di interpreti e di uomini. Non è sicuramente una sensazione conciliante e piacevole. Ma quante pellicole ci danno questa scomoda opportunità da portare con noi a casa?

Non c’è corpus autoriale cinematografico contemporaneo più coerente, pervicace e compatto, eppure aperto, libero e imprevedibile, di quello inaugurato da La promesse (1996) dei fratelli Dardenne, e portato avanti, e in profondità, in ogni misurato capitolo (10 in 23 anni) nel loro premiatissimo tragitto artistico (solo a Cannes, due Palme d’oro e un Gran premio della giuria). Da Rosetta a La ragazza senza nome, passando per Il figlio, L’enfant, Il matrimonio di Lorna e Il ragazzo con la bicicletta, i loro titoli vanno a costituire una sorta di famiglia allargata e meticcia, crudele ma non del tutto disperata, di nomi, ruoli, volti e scelte, che rimangono impressi come un ritratto autentico, partecipe, lacerante del nostro presente.

Un percorso adamantino e coeso, che ha radici fonde nel documentario, ma inventa una narrazione essenziale e spoglia, dura e pregnante, tutta internamente consonante e sempre necessaria, caratterizzata da una cifra di stile realistica, diretta e asciutta eppure densa di significati, anche se il simbolo e il senso non vengono mai imposti o appiccicati al mondo mostrato e narrato, paiono piuttosto emergere spontaneamente da quello che accade davanti alla macchina da presa, oltre l’inquadratura, dentro e dietro le persone/personaggi, in tutte le loro irrisolte contraddizioni.

età giovane

Se alcune scelte di principio possono sembrare dei partiti presi stilistici, proprio queste “regole” – l’assenza della musica non diegetica, l’utilizzo costante di attori non professionisti, il pedinamento sistematico del personaggio centrale, spesso in età acerba, la sospensione del giudizio che segna finali aperti come fossero una scelta a cui è consegnato lo spettatore – rendono l’esperienza del loro cinema potente, per sottrazione. Ogni sentimentalismo è bandito, e le emozioni più profonde, imprevedibili possono venire a galla.

Non c’è cinema più politico e meno ideologico, più rigoroso e meno rigido, che esercita sui suoi soggetti una forma di attenzione estrema e inattuale, verrebbe da dire, evocando senza vergogna né esagerazione lo spirito di Cristina Campo e l’occhio di Robert Bresson. Ché lo sguardo di Jean-Pierre e Luc Dardenne, riconoscibilissimo, è capace come pochi altri di fondere etica ed estetica, senza sbavare o sbandare in moralismo o estetismo. Ha il coraggio di sondare le zone più scure, impure e marginali di anima e società, eppure sa sempre dove fermarsi. Illumina con esattezza. La loro pratica coraggiosa, attraverso uno scavo continuo, uno ‘stare addosso’ instancabile ai loro oggetti d’indagine e d’elezione, non indulge e non si distrae, non si chiude mai nel giudizio assoluto ma evita al contempo ogni scorciatoia assolutoria.

Come si fa a essere severi senza essere spietati? Come è possibile affrontare veri e propri campi minati (qui, se vogliamo, il radicalismo islamico, almeno in superficie, ma anche la battaglia interiore di un’adolescenza e il senso del perdono) con la grazia di un danzatore, la cautela maieutica di una levatrice, la precisione salvifica di un chirurgo, l’osservazione partecipante di un antropologo e la compassione amorevole di un genitore? Guardate uno qualsiasi dei film dei fratelli Dardenne, e capirete quello di cui stiamo parlando, qualcosa che ricorda una forma straordinaria di rispetto.

D’un tratto il carrello come una questione di morale teorizzato dalla celebre boutade di Jean-Luc Godard o l’abiezione che Jaques Rivette rinveniva con disprezzo nel movimento di macchina di Gillo Pontecorvo in Kapò, non appariranno più l’armamentario ammuffito di una prospettiva critico-morale teorica e superata (la vecchia Nouvelle Vague), ma qualcosa di concreto, che riguarda ancora il modo giusto di riprendere le cose, e dunque di prendere posizione. L’idea di un cinema che s’interroga ancora su come bisogna inquadrare il mondo mostra la sua forza attualissima in una maniera di guardare, e dunque di stare al mondo. E attraverso la responsabilità che si assumono nel loro modo di fare cinema, i film dei Dardenne rinviano sempre e in ultimo alla libertà e alla responsabilità dello spettatore: stiamo noi in quel mondo, e nello stesso tempo dobbiamo decidere da dove e come guardarlo (secondo la lezione di Michelangelo Antonioni nel Deserto rosso: “Tu dici: cosa devo guardare. Io dico: come devo vivere. È la stessa cosa” ).

Ma, data la premessa/promessa di questo modus operandi, veniamo alla storia che decidono questa volta di osservare e consegnarci, al nuovo ritratto sporco e perfetto della loro galleria di personaggi non di rado disturbanti e irrisolti, colti nel momento del dilemma.

Il giovane Ahmed, letteralmente il titolo originale di L’età giovane, ha tredici anni. È cresciuto nell’assenza del padre, come capiamo presto, il che, conosciuti i padri dei film dei Dardenne, potrebbe anche costituire una sorta di benedizione. Ahmed ha del resto una madre amorevole, che prova a gestire come può un figlio per nulla facile e una certa personale propensione per l’alcol. Il ragazzo manifesta, seguendo l’influenza di un Imam radicale, i segni di una fede sempre più dura e intransigente, vivendo in maniera ossessivo compulsiva la preghiera, i doveri religiosi, le abluzioni con cui non sembra riuscire a purificarsi mai a sufficienza.

Riscontra nel mondo esterno sempre più i sintomi di un degrado morale pervasivo e vede minacce degli infedeli da combattere a ogni passo: dagli abiti e costumi occidentalizzati della sorella alle umane debolezze della madre, la sua rabbia giovane e la sua condanna dell’impurità s’impuntano però con ferocia maniacale e sproporzionata sulla sua maestra. L’insegnante, pur avendolo aiutato ad affrontare la dislessia e assumendo nei suoi confronti un atteggiamento affettuoso e dialogante, è a suo giudizio un’apostata. La proposta pedagogica di lei di un corso di arabo moderno a partire dalle canzoni, che incontra le resistenze delle famiglie in difesa di una tradizione che vede nel Corano la sola fonte legittima di lingua, conoscenza, modelli di giudizio e di comportamento, è per lui un grave atto di blasfemia, da punire con determinazione.

Il progetto che si fa strada nella mente del giovane, come una missione ineludibile da compiere, rafforzata dalle parole infervorate della guida spirituale e dai modelli, ricercati in rete e individuati nella rete parentale, di chi ha sposato la jihad, è quello di uccidere la donna. L’aggressione, per quanto sommariamente predisposta, nel suo darsi impulsivo, ambivalente e maldestro, non va però a buon (?) fine. Innesca tuttavia un tragitto in cui il giovane, fermato e mandato in una comunità di recupero, è inserito in un percorso riabilitativo che, pur confrontandolo con la gravità dell’atto compiuto e aprendolo a possibilità di elaborazione, perdono e reinserimento, non sembra davvero modificarne lo spirito profondo e le intenzioni.

Ecco il genio dei fratelli Dardenne, che non mostrano né un percorso edificante di riabilitazione e ravvedimento, né il ritratto riduttivo di un individuo malvagio per vocazione o per deterministiche ragioni sociologiche o psicologiche. È come se l’adolescenza del protagonista, il suo non sapere bene chi è e insieme il suo darsi con frustrazione e fissazione a un progetto assoluto e non negoziabile, producessero un corto circuito, un nero paradosso, secondo il quale un tentato omicidio risulta un atto buono e giusto, mentre il perdono non è che un’abiura e un bacio è percepito come la macchia più peccaminosa.

Come gli animali in gabbia da liberare, per condurli poi in un’altra gabbia, che vengono mostrati nella fattoria dove il cucciolo incattivito Ahmed è chiamato a ridiventare animale sociale, i Daredenne raccontano la libertà di scelta, l’opacità e i cul de sac interiori di un ragazzino in cattività, la sua prigionia dello sguardo (per compiere l’aggressione si lega gli occhiali alle orecchie con degli elastici).

L’ideologia di purezza e punizione che lo muove (in cerca di certezze e identità) è infatti una lama affilata (un coltello che ferisce in primis lui stesso): ecco che significativamente è proprio un oggetto per la pulizia della bocca, lo spazzolino da denti, che, levigato in segreto in cella, può divenire nuovo strumento di morte, instaurando una diabolica specularità fra ferire e pro-ferire, pulire e punire.

È come se la temperatura della propaganda e della gioventù (quella di una testa calda) perdessero completamente il contatto con i gradi precisi e nutrienti del latte materno, come suggerisce quasi per caso la giovane ragazza che istruisce l’apprendista fattore sui segreti della mungitura. Non a caso sarà sempre lei che esporrà la rigidità del giovane uomo al moto imprevisto e destabilizzante del desiderio erotico, che ancora passa per la bocca. Ma neppure Goethe in declinazione agreste – l’eterno femmineo ci tra(ttor)e verso l’alto – basterà a salvare l’anima perduta (?) del figliolo.

Come le accorate raccomandazioni materne cadono nel vuoto, così l’opportunità dell’amore non sembra distogliere il ragazzo dal suo chiodo fisso, anzi lo porta a chiedere alla peccaminosa seduttrice di diventare seduta stante musulmana, unica grottesca soluzione che il tredicenne vede per lavare l’onta dello scambio di labbra.

E la fuga disperata del finale, tolta la cintura di sicurezza, scavalcato il muro dell’infanzia perduta, riconsegna il protagonista alla sua ossessione di annullamento di tutto quello che pare pelare sporcare il suo spazio assoluto di attaccamento al precetto, la sua paura giudicante del mondo.

I Dardenne ci portano infine dentro un luogo senza vie d’uscita nel quale il loro protagonista, ancora alla ricerca della vendetta contundente contro un femminile che non sa abbracciare, letteralmente precipita, come l’immigrato irregolare di quell’incidente che tanti anni prima segnò il trauma originario e formulò il patto fondativo di tutto il loro cinema precipitando a terra.

E nelle parole finali del film, prima di un nero lunghissimo, disorientante e abissale che precede i titoli di coda, si condensa una formula di perdono che, pur essendo, come una promessa, quello che la linguistica chiama un atto performativo, un dire che è insieme anche un fare, ci lascia nella totale incertezza rispetto alla sua reale autenticità, e sgomenti nel veder coincidere aggressione e riconciliazione, estremo tentativo di cancellare l’altro e incontro ultimo e ravvicinato con l’altro, opportunità di salvezza e opportunismo del gesto, minaccia di morte e possibilità di rinascita.

Lasciandoci interdetti, in questa violenta sospensione, il cinema dei Dardenne ci lascia nello spazio della nostra responsabilità, di interpreti e di uomini. Non è sicuramente una sensazione conciliante e piacevole. Ma quanti film ci danno questa scomoda opportunità da portare con noi a casa?

 

L’AUTORE: sulla pagina autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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