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“Fai piano quando torni”: l’esordio narrativo di Silvia Truzzi

silvia truzzi fai piano quando torni

Silvia Truzzi (nella foto di Luca Del Pia, ndr) firma di punta de Il Fatto Quotidiano, è all’esordio narrativo con il romanzo Fai piano quando torni (Longanesi), una storia d’amicizia, dolore e rinascita.

Margherita sembra avere tutto nelle sue mani: è bella, giovane, avvocato e ricercatore universitario, viene da un’ottima famiglia. Ma non è tutto oro quello che luccica: otto anni prima Margherita ha perso suo padre, la figura fondamentale della sua vita; inoltre il suo fidanzato storico la lascia improvvisamente. Poi arriva l’incidente: dopo uno schianto con l’auto, si ritrova ricoverata in ospedale a condividere la stanza con la signora Anna, una vivace ex cuoca di settantasei anni, con un femore rotto ma non per questo meno arzilla e invadente, che sembra quasi divertirsi della riservatezza e serietà della sua giovane “coinquilina”.

Durante la convalescenza di Margherita, Anna farà di tutto per disturbarla e contagiarla con la sua allegria, raccontandole la sua storia – incredibile ma verissima. E, tra lettere segrete e avventure private, le due donne, che sembravano vivere in due mondi lontanissimi, imparano a conoscersi, in un’amicizia che cambierà la vita di entrambe.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it ne pubblichiamo un estratto

Dove si scatena
uno tsunami in un bidet

 

Bologna, 10 luglio 1960
Nicola mio, qui si parla solo degli operai morti a Reggio Emilia. Io non so cosa pensare: al bar dicono che è la reazione ai fascisti al governo. A me mi dispiace tanto per quell’Ovidio, così giovane, poveretto. Non so cosa pensi, ma è un peccato che muoiono dei ragazzi giovani. Mi raccomando tu stai attento quando sei in servizio, non andare in pericolo. Prego sempre che non ti capita niente, tutte le sere.
Volevo andare al cinematografo a vedere quel film famoso che ha vinto il premio a Can, in Francia, La dolce vita. Lo sai che c’ho un debole per Mastroianni. Te l’hai visto? Se sì, almeno raccontamelo e dimmi se la svedese è così bella.
Sei sempre nel mio cuore, Anna

Quando cominciai a mettere in relazione qualche sinapsi mi accorsi che c’era un letto vicino al mio. Una specie di corpo informe riempiva le lenzuola. Quella cosa, a qualunque tipo umano appartenesse, russava terribilmente. In un modo osceno, come la caricatura di uno che russa. La indicai con una mano, in contemporanea partì un urlo. «La flebo», ahia.
«Mamma, ti prego. Digli che mi levino l’ago stanotte. Mi fa male. Chi è?» Dalle coperte spuntava una retina celeste, sotto i bigodini. L’ultima immagine che mi sarei aspettata in un ospedale.
«È una signora anziana. Si chiama Anna. Le ho parlato prima: è una donna gentile, però ha una figlia molto antipatica. Mentre dormivi è venuta a trovarla e dovevi vedere con che sufficienza la trattava… Lei sembra triste. Si è rotta il femore cadendo in casa. Era in ansia per te: hai faticato a svegliarti, stavolta.»
«Russa.»
«Non essere odiosa. Mettiti i tappi. E poi stasera ti daranno la pastiglia. Stai tranquilla. Il dottor Iodice passerà domani.»
Che culo. Il dottor Iodice era lo psichiatra che «mi stava seguendo». Ero in ospedale da tre mesi: quando mi avevano ricoverata l’unica cosa intatta erano i denti. E per fortuna, con la fatica che avevo fatto per raddrizzarli… Il cuore funzionava, ma era un puro caso, contro la mia volontà, forse. Ero rimasta in coma nove giorni. Dicono che mi sono svegliata perché Francesco mi ha parlato senza mai fermarsi. Ma è una di quelle sciocchezze romantiche che la gente racconta per sentirsi meglio. Non era il mio tempo e a un certo punto mi sono svegliata. E comunque l’unica voce che avrei voluto sentire era quella di mio papà, ma quasi nemmeno la ricordo più. Ogni tanto fischietto una canzoncina con cui mi «chiamava» quand’ero piccola e mi veniva a prendere a scuola: lui fischiettava e io lo individuavo immediatamente tra la folla dei genitori di fronte al cancello. Da grande, ho scoperto che era un pezzo del suo amato Gaber, Goganga. Un’estate, non so più perché, avevo passato la seconda quindicina di giugno a casa. Nessuno poteva tenermi o portarmi al mare, né la mamma né la tata. Mi mandarono all’asilo estivo, una specie di lager travestito da scuola. Le maestre erano cattive, il cibo – letteralmente – vomitevole e ci obbligavano a dormire al buio per tre ore dopo pranzo, stesi su brandine puzzolenti. Papà venne a prendermi all’uscita il primo giorno, io ero aggrappata alla rete del giardino. Piangevo così forte che nemmeno avevo sentito il fischio. Ricordo perfettamente le sue braccia sotto le mie ascelle mentre mi sollevava e mi consolava con un bacio: non mi mandò più all’asilo estivo e ancora oggi gli sono infinitamente grata. Quell’istante – le sue braccia che mi sollevano e la mano dietro la nuca – è stato il mio sogno ricorrente dopo la sua morte. Quando sognavo papà, sognavo la sua mano che mi prendeva alla base del collo per sistemarmi la testa sulla spalla. Non mi sono mai sentita così protetta e al sicuro come allora. E comunque quel fischio è l’unica cosa che conservo perfettamente, come se l’avessi ascoltato ieri per l’ultima volta. La voce invece no, non riesco a ricordarla: l’ho proprio persa.
Pagherei qualunque cifra per una sua telefonata. Che pensiero stupido, ma è stata un’altra fissazione per molti anni. Alla sera provavo a prendere sonno pensando: ma se papà mi telefonasse? Da lassù, una chiamata interplanetaria, quanto costerà? Quando andava bene, lo sognavo e, almeno per un po’, stavamo ancora insieme.

* * *

Francesco è rimasto davanti al mio letto senza mai andarsene dall’ospedale. Si allontanava solo per piangere. Questa è la versione di mia madre, naturalmente non le credo. Una cosa così la fa un uomo innamorato, non uno che ti ha piantata in asso alla prima complicazione. Del resto, «ti amo», dopo i primi mesi, aveva cominciato a dirmelo solo quando facevamo l’amore. Ma, come tutti sanno, a letto non conta. Io l’avevo notato, ovviamente, ma avevo deciso di non fare domande o sollevare obiezioni: non volevo passare per una femmina petulante. Praticamente tutte le mie energie nei cinque anni in cui siamo stati insieme sono state utilizzate per non sembrare, né a Francesco né ai suoi amici, una rompicoglioni. Perché non c’è nulla che fa scappare un uomo come il sospetto che la sua fidanzata sia una rompicoglioni. È una parola magica che immediatamente innesca la fuga, o un progetto di. E io Francesco me lo volevo tenere, più di qualunque altra cosa abbia mai avuto o desiderato.
Quando però ho aperto gli occhi, dopo i miei nove giorni di pausa dal mondo, Francesco era davvero lì, addormentato, con la testa posata sul mio letto. Aveva la barba sfatta, era la prima volta che lo vedevo in disordine. Ho alzato una mano, l’ho sfiorato, e lui si è svegliato. Mi ha baciato gli occhi – gli piaceva tanto farlo quando stavamo insieme – senza parlare. Tremava come una foglia, come uno che ha fatto uno sforzo fisico esagerato. Era pallido, magro, esausto. Piangeva e tremava. È uscito così, senza una parola… neanche «ciao, bentornata». Neanche «Margi», neanche «tesoro». Se n’è semplicemente andato via mentre io cercavo di capire dov’ero. Medici e infermieri mi hanno tolto i dubbi. Loro felici e sorridenti perché mi ero svegliata. Io di nuovo sola, e in ospedale.

* * *

Mia madre mi chiese se volevo bere, non risposi. In quel momento mi sentivo in diritto di fregarmene del mondo, di fare capricci, di lamentarmi. Mi guardò dispiaciuta e si mise seduta a leggere. La cosa nel letto di fianco si risvegliò all’improvviso. L’effetto fu quello di uno tsunami in un bidet, poi il lenzuolo si sollevò. Erano veramente bigodini, su una testa bionda, biondissima, biondo platino. La signora Anna si girò verso mia madre e con un sorriso entusiasta chiese: «Si è svegliata?»
«Sì, è andato tutto bene.»
«Vedrai che tornerai a star bene, bambina.»
Nemmeno risposi. Bambina un cazzo: i prossimi sono trentacinque.

* * *

Ripresi in mano il libro, ma non feci in tempo nemmeno a girare una pagina che la signora Anna, in tutta la sua maestà, si affacciò alla porta della stanza. I bigodini erano spariti ed era avvolta in una lussuosa vestaglia di raso: rosa.
«Ciao, bambina, come stai?»
«Bene, signora.»
Avevo provato a sorridere, ma il comando dal cervello non era arrivato in tempo alla bocca: non ce l’avevo fatta. Mi sfuggì un gemito. Lei si avvicinò al mio letto e si mise placidamente seduta. Come se fosse stata invitata o benvenuta, come qualcuno che proprio ti deve raccontare una cosa interessantissima.
Per una che venti giorni prima aveva il femore fratturato, si portava a spasso i suoi settantasei anni con una maestria invidiabile. Si sfilò la vestaglia, sotto portava una camicia da notte rosa con i bordi di pizzo. La guardai come si fa con un fenomeno da baraccone, tipo la donna che mangia il fuoco. Lei se ne accorse, e sorrise. Era compiacimento.
«Allora, come ti chiami?»
Ma che cazzo te ne frega, brutta vecchia?
«Margherita.»
«Io mi chiamo Anna.»
«Sì, lo so.»

La vecchia se ne stava lì, con i suoi patetici pizzi. E il suo intero essere, rosa.
«Quanti anni hai?»
Pensai che fosse il momento di mettere le cose in chiaro.
«Signora, io non ho mai voglia di parlare. Preferisco ascoltare la musica e leggere. Da sola.»
Mi guardò spalancando gli occhi celesti, troppo grandi, improvvisamente dolcissimi.
«Va bene, bambina.» Si alzò, diretta verso il suo letto. Finalmente Bono iniziò a cantare: and may your dreams be realized. Da quando ero in ospedale non riuscivo neanche a piangere, ma qualche volta sognavo Francesco che mi diceva la nostra frase: «Fai piano quando torni».

(continua in libreria…)

L’APPUNTAMENTO – L’autrice parlerà del libro anche a Tempo di Libri – la fiera internazionale dell’editoria di Milano – in un incontro dal titolo L’amicizia non ha età, in programma venerdì 9 marzo alle 18, con Ferruccio de Bortoli e Pif.

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