“A un certo punto mi chiese chi pensavo che fosse il mio Maestro, e io ci pensai. Poi dissi che forse era mia madre”. In occasione dell’uscita de “Il maestro”, il suo nuovo romanzo, ilLibraio.it ospita la riflessione autobiografica di Francesco Carofiglio

Ho fatto le elementari dalle suore. Veniva comodo, l’istituto era sullo stesso isolato di casa. Potevo andarci a piedi, da solo, senza neanche attraversare la strada. Le maestre le chiamavo suor Rosa, suor Marta, suor Gioconda. Non le chiamavo maestre.

Di quegli anni ricordo il giardino di aranci durante la ricreazione, il teatrino di legno incastonato nel salone delle feste, e il profumo di polpette che veniva fuori dalla mensa.

Ho iniziato a disegnare molto presto, come tutti i bambini inventavo storie, disegnando. Copiavo tutto quello che capitava a tiro, da Topolino a Pontormo.

A sei anni ho cominciato ad andare a bottega da una artista un po’ eccentrica. Si vestiva da uomo, e portava i capelli cortissimi. Aveva un canecavallo con un nome gommoso e un laboratorio freddo, dove Oberon, si chiamava così, scorrazzava agitando una coda di liana. C’era un odore penetrante di terracotta, se chiudo gli occhi e penso a quell’odore, mi ritrovo dinanzi al forno dove cuocevano le formelle di creta.

Poi ho studiato pianoforte, barando spesso sul solfeggio e sulle scale. Avevo un maestro cieco che vedeva tutto e mi smascherava ogni volta. Ho cominciato a fare l’attore a sedici anni, in una piccola compagnia di teatro ragazzi, catapultato sulla scena per sostituire un altro che si era rotto una gamba. Mi ricordo i panini con la mortadella, divorati tra una replica e l’altra, e l’odore stantio delle poltrone nei teatri di provincia. E la sensazione di essere il padrone del mondo.

Quando sono andato a Firenze per l’università ho vissuto a casa degli zii per un paio d’anni, la casa puzzava di fumo e profumava di dopobarba, era grande, con un terrazzo da cui si vedeva tutta la città. La cupola di Brunelleschi galleggiava nella sua luce, nelle sere d’inverno. Ho cominciato a studiare seriamente teatro, e dopo un paio d’anni Albertazzi mi scelse per il ruolo di Innocenzo III, il papa giovane, in uno spettacolo su Federico II di Svevia. Mi ricordo tutto di allora. Essere lì, d’estate, dinanzi a una piazza gremita e dover tirare fuori la voce, la paura che si mutava in coraggio. E quella ragazza di cui mi innamorai, che baciavo clandestinamente tra le quinte, perché nessuno doveva sapere. E dietro le quinte spiavo Albertazzi, in scena si muoveva felpato, obliquo, come un gatto. Lui diceva che non voleva essere il maestro di nessuno. E forse aveva ragione. Io lo chiamavo Albertazzi e gli davo del lei, lui sorrideva e mi diceva “Franceschino dammi pure del tu, come tutti gli altri”. Non sono stato mai capace.

Una volta, era un altro spettacolo, un paio d’anni più tardi. Doveva essere lunedì, giornata di pausa. Il resto della compagnia era fuori per una gita non so dove e io rimasi in albergo perché dovevo studiare per un esame. Albertazzi che era sempre circondato da una corte di collaboratori solerti e di seguaci entusiasti, quel giorno era solo. Restammo a parlare in un cortile con i rampicanti che facevano una volta profumata sopra le teste. Mi parve di vedere tutta la solitudine di quell’uomo, che allora mi sembrò eroica. Lui disse cose che tengo per me e io ne dissi altre. A un certo punto mi chiese chi pensavo che fosse il mio Maestro, e io ci pensai. Poi dissi che forse era mia madre. Lo vidi sorridere, per la prima volta arrendevole, e forse arreso, dentro una vita di passaggio. E in quello mi sentii uguale, pronto ad arrendermi anche io, e di passaggio.

Dopo alcuni anni ho smesso di recitare per fare altro, l’architetto, l’illustratore, alla ricerca spasmodica di un centro che non ho mai davvero trovato. Ho iniziato a scrivere romanzi per caso. E forse il caso mi ha consegnato la migliore delle opportunità. Io adesso amo scrivere, non potrei farne a meno.

Il mio ultimo romanzo, Il Maestro, forse parla proprio di questo. Delle cose perdute e delle possibilità inaspettate. È la storia di un vecchio attore che ha lasciato le scene, il più grande attore del Novecento. E di una ragazza.

Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re dello spazio infinito. Lo dice Shakespeare, lo dice Amleto. Credo che sia cosi.

Credo che non possa essere altrimenti.

L’AUTORE – Francesco Carofiglio, scrittore, architetto e regista, è nato a Bari. Oltre a L’estate del cane nero, Ritorno nella valle degli angeli e Radiopirata (tutti usciti per Marsilio), ha pubblicato per BUR il romanzo With or without you e per Rizzoli, in coppia con il fratello Gianrico, nel 2007 il graphic novel Cacciatori nelle tenebre (Premio internazionale Nino Martoglio) e nel 2014 La casa nel bosco. Per Piemme ha scritto Wok (2013), Voglio vivere una volta sola (2014) e Una specie di felicità (Premio Maratea 2016).

Cover Carofiglio

IL NUOVO ROMANZO – Il protagonista del suo nuovo romanzo, Il maestro (Piemme), Corrado Lazzari, è stato il più grande. Attore di teatro, volto della tragedia shakespeariana in tutto il mondo, acclamato da platee adoranti e spettatori illustri, è oggi un uomo solo. La fama, gli autografi, gli amici, tutto perduto. Solo il suo archivio di recensioni e tributi, gelosamente custodito e continuamente riordinato, testimonia il passato dell’uomo ormai anziano che vive in solitudine in un palazzo che tutti stanno abbandonando, nel centro di Roma. Le giornate di Corrado si inseguono, uguali e monocordi, mescolando la fragilità del presente ai ricordi del passato. Facile pensare che tutto possa continuare identico a se stesso fino alla fine. Poi un giorno arriva lei, e tutto cambia. Alessandra è giovane, poco più di vent’anni, e studia lettere con indirizzo teatrale, così dice al maestro presentandosi. Timida e impacciata, cerca di far irruzione nella vita di quello che per lei è un mito. L’iniziale ritrosia dell’uomo viene spazzata dall’ansia di sapere della giovinezza. E attraverso le battute teatrali che hanno riempito la sua vita più delle parole spontanee, insieme a quella giovane, Corrado scoprirà finalmente il modo di accettare la propria caduta e di rendersi immortale nello stesso, perfetto istante…

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