Nell’era della “retromania”, una riflessione sulla nostalgia (nella letteratura, nel cinema, nelle serie tv), a partire da “L’unico viaggio che ho fatto” di Emmanuela Carbé, a metà strada tra il memoriale puro e il reportage narrativo

La nostalgia è una bestia feroce. Ti prende alle spalle quando meno te lo aspetti, e ti porta a desiderare di riscoprire un passato non vissuto pienamente, o a tornare sui tuoi passi, recuperando i luoghi e le sensazioni che colleghi ai tuoi ricordi felici. Ma non tutto è capace di reggere alla prova del tempo, e le stesse cose che una volta ti risultavano incantevoli finiscono per portare addosso i segni pesanti delle tue aspettative non appagate.

carbè

Con L’unico viaggio che ho fatto (minimum fax) la scommessa di Emmanuela Carbé è doppia, come doppia è la sua consapevolezza della nostalgia, al tempo stesso pericolo e sirena: da un lato Carbé la privata cittadina va a riscoprire Gardaland, il grande parco dei divertimenti padrone assoluto del suo immaginario infantile, accompagnando il fratello minore in una serie di nuove visite, durante le quali può prendere atto di quanto sia o non sia cambiato il teatro dei suoi sogni; dall’altro Carbé la studiosa si lancia nell’impresa di voler scoprire il più possibile sulla realtà del parco, e quindi intervista, fa ricerca, mette in relazione, si muove febbricitante nel tentativo di smontare i meccanismi che hanno portato alla costruzione di un luogo così potente per così tante persone diverse. Ne nasce un libro a metà strada tra il memoriale puro e il reportage narrativo, se vogliamo ragionare in termine di generi di appartenenza. Ma la scrittura di Carbé è un vortice, che punta a creare un’avventura intellettuale facendoti comunque marciare su due binari differenti: ti chiede di seguirla nella riscoperta di un posto per lei prezioso, e al tempo stesso ti chiede di ammirare il rigore con cui la protagonista vuole vederci chiaro, dominare l’oggetto dei propri desideri.

Un testo simile non esiste in un vacuum, anzi, se mai arriva in un momento in cui stiamo assistendo a una costante rimessa in scena di un periodo, “il passato”, che brilla di colori accesi, e che viene fatto ubbidire alle regole dell’intrattenimento contemporaneo.

Vinyl

Una serie tv come Vinyl si preoccupava di svelare i retroscena della discografia anni ’70, e quindi portava in scena un piccolo mondo eccessivo, popolato di uomini e donne perduti a vari livelli, però finiva per sbirciare la Grande Storia dal buco della serratura (non che questo sia un difetto per forza di cose, ma un’impronta alla narrazione la dava eccome). Mentre il fin troppo elogiato Stranger Things, ambientato nella provincia americana dei primi anni ’80, non raccontava davvero nulla della realtà del periodo in questione, ma funzionava come omaggio affettuoso ai film per ragazzini concepiti da Spielberg, Joe Dante e Richard Donner, adagiandosi nell’imitazione dei modelli, e fermandosi, inevitabilmente, alla superficie.

Stranger Things

La nostalgia come antidoto a un presente difficile da catturare fa capolino anche nelle pagine del libro di Carbé. La scrittrice ricorda l’ansia che durante la sua infanzia precedeva ogni singola gita a Gardaland, caricata di un potenziale salvifico, capace di cancellare ogni passaggio dubbio o doloroso delle proprie vicende familiari. La stessa ansia oggi si ritrova nello spirito indagatore con cui vuole arrivare al cuore della propria ossessione. Come mai quel luogo è ancora tanto seducente ai suoi occhi? E come mai, nonostante la presenza di nuove attrazioni, alcuni degli elementi storici del parco continuano a piacere molto ai nuovi visitatori, mentre altri, molto più costosi, sono stati presto messi da parte, e altri ancora sopravvivono, un po’ defilati, forse soltanto per compiacere gli adulti in vena di regressioni? Al di là delle imponenti campagne pubblicitarie, esiste, insomma, una logica responsabile di questo cedere collettivo a una grande sirena, incarnata in un luogo dove la prima lezione da imparare è che si fa la fila per qualsiasi cosa, grandi e bambini insieme? L’unico viaggio che ho fatto non offre nessuna risposta definitiva, vuoi per una strana forma di pudore autoriale, vuoi per la complessità del tirare i fili di un’indagine laboriosa. Ma è bello lasciarsi trasportare da un’avventura in cui, a tratti, ci si perde. E un rapido salto a Gardaland, per come lo racconta Carbé, è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita.

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Il suo nuovo romanzo, Mi chiamo Sara, vuol dire principessa, sarà pubblicato in primavera da Marsilio. Ha inoltre fondato la rivista online Abbiamo le prove nel 2013, e l’ha seguita personalmente fino al 2016. Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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