Il regista franco-argentino Gaspar Noé ha la fama di essere uno dei più controversi cineasti della sua generazione, spesso poco capito ed etichettato come provocatore. Ma, fin dai tempi di “Enter The Void” (2009), ha in realtà sempre attraversato un discorso coerente: l’osservazione del nulla, un nulla che nell’era contemporanea si è trasformato in tutto. Su ilLibraio.it un approfondimento a partire dal suo ultimo lungometraggio, “Climax”

Il regista franco-argentino Gaspar Noé ha la fama di essere uno dei più controversi cineasti della sua generazione, spesso poco capito, è etichettato come semplice provocatore che porta avanti un cinema fine a se stesso. Ma Noé, fin dai tempi di Enter The Void (2009), ha in realtà sempre attraversato un discorso coerente: l’osservazione del nulla, un nulla che nell’era contemporanea si è trasformato in tutto. Il suo ultimo lungometraggio, Climax, ne è il risultato più maturo. 

Il film racconta di una vicenda realmente accaduta nel 1996 in Francia. Venti giovani ballerini si riuniscono per una prova a porte chiuse in un collegio abbandonato. Presto si rendono conto di aver assunto LSD, ma non sanno chi li ha drogati. La situazione degenera rapidamente, quella che era una semplice festa a base di sangria e danza si trasforma in un incubo a più voci.

Quando i protagonisti perdono progressivamente il controllo delle loro azioni abbandonando ogni sovrastruttura sociale che li lega a un affetto o a un’amicizia con l’altro, quando ognuno si accorge della propria sconfinata solitudine, ecco che il nucleo del film si rivela in tutta la sua efficace ferocia: fisica e psicologica. Una riflessione che si muove, come in una danza satanica, tra il microcosmo e il macrocosmo: i ballerini sono i rappresentanti di una collettività che può essere estesa alla Francia intera. Una Nazione che cerca di mostrarsi come portatrice di valori universali di fratellanza e integrazione ma che, in realtà, cova dentro di sé stratificate lotte intestine, che oltre a dare alla luce un’incoerente rabbia repressa, conducono anche alla più desolante perdita di identità. Dopo tutto, come si legge in esergo al film, “Climax è un film francese e fiero di esserlo”.

 Gaspar Noé Climax

Nella messa in scena di Noé è impossibile non leggerci la filosofia e le atmosfere del Marchese De Sade, i suoi pensieri sulla vera natura dell’uomo che, scoprendosi irrimediabilmente solo, si ribella al perbenismo e alla convenzione sociale per abbandonarsi al corpo e allo scoperchiamento di tutti quei tabù imposti. Ma nella filmografia del regista il lasciarsi andare corrisponde anche a un’altra scoperta: quella del vuoto.

Il vuoto è per lui la lucida consapevolezza che nel presente non esista più una divisione netta tra forma e sostanza, ma che le due istanze si fondono in unico plasma primordiale, che porta avanti delle azioni che altro non sono che movimenti meccanici. Automatismi che, una volta svelati o visti da un punto di vista quasi aereo (il plongée è una delle tecniche più usate nel film), assumono un significato profondo, quello, appunto, di un vuoto alla disperata ricerca di una sostanza che non si trova. Ed è non trovandola che i protagonisti di Climax precipitano nel caos: sbattono contro i muri, si picchiano selvaggiamente, consumano rapporti sessuali incestuosi, abbandonano al pericolo i propri figli, smettono, insomma, di essere ciò che arbitrariamente l’opinione comune chiama “esseri umani”.

“Ho preso ispirazione da molti film degli anni ’70. Come L’inferno di Cristallo (di John Guillermin e Irwin Allen), L’avventura del Poseidon (di Ronald Neame) e un film di Cronenberg chiamato Il demone sotto la pelle. Si tratta di persone che creano qualcosa insieme e falliscono nella seconda parte. È come la storia della Torre di Babele. L’umanità può creare grandi cose. E poi con l’influenza dell’alcool, o qualche incidente, tutto crolla.”

Questa dichiarazione di Noé porta a constatare quanto il regista usi il cinema per parlare di cinema; per celebrarlo e allo stesso tempo condurlo sempre un po’ più al limite dell’espressione. All’inizio dell’opera, infatti, scorrono alcune interviste ai ballerini, che vediamo su un vecchio televisore, circondato a sua volta da vecchie VHS, tra le quali Suspiria di Dario Argento (Climax è uscito nello stesso periodo del remake di Guadagnino e, come il suo fratello demoniaco, usa il linguaggio della danza per narrare la distruzione progressiva di un gruppo di individui); Salò o le 20 giornate di Sodoma di Pasolini e Possession di Andrzej Żuławski. Una continua citazione di un postmodernismo quasi militante, che dimostra di avere tra le sue priorità quella di girare su se stesso, riflettendo la confusione e l’anarchia del mondo.

Ecco, allora, che la scelta di far improvvisare attori non professionisti e renderli protagonisti del film, ci riconduce a un cinema che, al di là delle apparenze, nel suo più intimo afflato teleologico, si prefigge di essere realista, nel senso di aderente alla realtà che lo circonda, adeguandosi a essa senza giudicarla ma, allo stesso tempo, descrivendola impietosamente attraverso il vuoto che la abita.

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