A sessant’anni dalla pubblicazione (da parte di Feltrinelli) del capolavoro di Boris Pasternak, il giallo “Il traduttore”, firmato da Biagio Goldstein Bolocan, prende le mosse dalla celebre vicenda editoriale legata al bestseller “Il dottor Živago”…

Milano, 1956. L’appartamento di via Borsieri è in penombra. Ovunque sono ammassati libri. Ce ne sono migliaia, stipati sugli scaffali e accatastati per terra. Accanto alla finestra, una scrivania, anch’essa incorniciata da colonne di libri, e, dietro, quello che potrebbe sembrare un insieme di vestiti ammonticchiati alla rinfusa ma che, avvicinandosi, si svela in tutta la sua oscenità: il cadavere di Cesare Paladini-Sforza, raffinato slavista e traduttore per la casa editrice Feltrinelli. Il caso viene affidato al vicecommissario Ofelio Guerini, un’anomala figura di questurino-partigiano comunista, che capisce subito che si tratterà di un’indagine complicata.

Boris Pasternak

La vittima lavorava a un’opera scottante, destinata a suscitare grande clamore: un romanzo straordinario, scritto da un poeta russo inviso al regime, di cui la Feltrinelli sta preparando in gran segreto l’uscita in anteprima mondiale. Il dottor Živago di Boris Pasternak.

Più Guerini procede nelle indagini e alza il velo sull’affascinante figura di Paladini-Sforza, più affiorano piste inquietanti e si squadernano interessi politici internazionali. Nel cielo si addensano le nubi oscure della Storia − la Guerra fredda, la rivolta ungherese, la crisi di Suez − e attorno al vicecommissario danzano figure equivoche che cercano di condizionarlo e di orientarne le indagini. In questo labirinto, l’inquieto Guerini dovrà trovare la bussola. La Storia incombe e gli impone di scegliere: quale fra le tante storie possibili lo condurrà alla verità?

il traduttore

A sessant’anni dalla pubblicazione del capolavoro di Boris Pasternak, il giallo Il traduttore, firmato da Biagio Goldstein Bolocan, prende le mosse dalla celebre vicenda editoriale legata a Il dottor Živago e trascina il lettore tra intrighi e giochi di potere…

L’APPUNTAMENTO A TEMPO DI LIBRI – Il 22 aprile, alle 13.30, nella Sala Gotham – PAD. 2, è in programma l’incontro I milanesi uccidono il sabato, con Rosa Teruzzi, Stefano Jacini, Biagio Goldstein Bolocan, Lorenzo Beccati e Luca Crovi;

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo:

Lento a carburare, questo è Ofelio Guerini, sia nella vita privata che in quella professionale. Le sue indagini cominciano sempre in sordina e per qualche giorno, al risveglio, deve scavare nel pozzo nero della coscienza in cerca dei fatti elementari su cui focalizzare la sua intuizione investigativa.

(…) È fatto così, Guerini, ha bisogno di stringere con la vittima un patto, di lanciare un sottile e invisibile filo affettivo, perché in fondo è a lui che spetta, ultimo in ordine di tempo e per l’eternità, di farsi carico del suo dolore.

Decide che deve colmare quella lontananza e non conosce altro modo che immergersi negli spazi della vittima come uno speleologo in una cavità carsica e lì, perso nel silenzio di anfratti remoti e senza vita, cercare il filo, tenderlo tra sé e l’oggetto scorporato che costituisce la ragion d’essere del suo mestiere.

Se si recasse in via Borsieri da solo, alla luce del giorno, in orario di lavoro, alimenterebbe i sospetti dei suoi colleghi, che si interrogherebbero sulle ragioni della loro esclusione. È strano: pur essendo il titolare delle indagini, difficilmente riuscirebbe a sottrarsi alla compagnia dei suoi uomini. Così deve approfittare di una pausa pranzo, alla quale attacca un’oretta di permesso per andare dal dentista, per raggiungere da solo l’appartamento in cui è vissuto e morto Cesare Paladini-Sforza.

(…) Entra e accende la luce. Lo colpisce l’esangue inconcludenza di quella luce fioca, talmente evanescente che dubita che qualcuno, eccetto Paladini-Sforza, possa averla scelta volontariamente per accogliere un ospite in anticamera. O forse no. Non sa quasi nulla della vittima e, dunque, può essere che invece fosse proprio quello l’intento, scoraggiare eventuali visitatori con la spettrale inospitalità dell’ingresso.

Una volta in salotto è tentato di aprire gli scuri e di arieggiare la stanza, ma prima di dare seguito a quell’impulso si rende conto che, se vuole davvero entrare in sintonia con l’ombra di quell’uomo svanito, deve rispettarne le scelte. Il buio anziché la luce, la fissità polverosa anziché il movimento.

Ha trovato l’appartamento in penombra quando vi è entrato per la prima volta, e così lo terrà. Lascia, dunque, che quella stanza ricolma di libri lo avvolga e, per favorire tale sintonia, senza nemmeno togliersi il cappotto si abbandona sulla poltrona che troneggia in mezzo alla stanza, sulla quale probabilmente il traduttore era solito riposare in compagnia di qualche buon libro.

È un punto di osservazione speciale perché concentra una potente energia. Si guarda attorno stupito di tanta abbondanza; volumi ovunque, non solo stipati in tre file sui ripiani delle librerie, ma molti ammonticchiati alla rinfusa, ora in pile, ora in veri e propri ammassi, ora naufraghi sperduti. Un disordine talmente rumoroso da evocare una forma misteriosa e inaccessibile di contrordine, che l’osservatore profano difficilmente riuscirà ad apprezzare perché esige una forma di saggezza e una disponibilità dell’anima estranee alla maggior parte degli esseri umani. Guerini, immodestamente, pensa di possedere quella particolare sensibilità perché quel caos non solo non lo infastidisce, ma al contrario lo accoglie tiepidamente. Pensa di aver fatto bene a compiere quel passo, ad andare incontro a quell’uomo.

Mentre è perso in queste considerazioni sentimentali, Guerini avverte un rumore di passi sul pianerottolo. Ha lasciato la porta semiaperta e riesce a udire i rumori provocati dall’incedere di qualcuno, chissà chi, ormai prossimo a varcare la porta d’ingresso.

Non ha tempo di fare nulla, né di nascondersi, né di assumere una postura conforme all’autorità che incarna. Sente una voce incerta domandare “C’è qualcuno?”, ma, anziché rispondere prontamente “C’è la polizia, c’è lo stato, ci sono io che li rappresento”, tace, forse per sfruttare l’effetto sorpresa e giocare le sue carte di fronte al prevedibile stupore dell’ignoto visitatore.

Dopo alcuni secondi, una figura maschile, alta e macilenta, si fa largo tra i libri.

“Lei chi è?” domanda timidamente.

Guerini, seguendo la sua indole bonaria, vorrebbe rispondere: “Ofelio Guerini, emiliano di nascita, milanese d’adozione, funzionario di pubblica sicurezza per caso, comunista per necessità morale, uomo del dubbio e della riflessione sfiancante, perdente per vocazione ma non per scelta”, ma trattiene quell’impulso spericolato e si attesta sulla linea di un silenzio enigmatico, dal chiaro sapore tattico, finalizzato a sconcertare l’avversario e a guadagnare nella contesa verbale una posizione di vantaggio che il suo interlocutore non potrà mai più recuperare.

“Le ho fatto una domanda,” aggiunge l’uomo con una voce equivoca, nelle cui corde il terrore s’impasta con un coraggio disperato. Come se l’uno, paradossalmente, rendesse possibile l’altro.

“Sono il vicecommissario Guerini e sono qui per le indagini. Lei, piuttosto, chi diavolo è e come ha fatto a entrare?”

“La porta era aperta…”

“E lei entra in tutte le porte che trova aperte?”

“No, certo che no…”

“Vuole dirmi come si chiama o devo portarla in questura?”

“In questura? Perché? Non ho fatto niente, io!” esclama allarmato l’uomo, faticando a dissimulare la paura che si è insinuata in lui.

“Allora?”

“Mi chiamo Domenico Missiroli.”

“È già qualcosa. E passava di qui per caso?”

“Ero amico di Cesare, molto amico.”

“Questo però non giustifica la sua presenza.”

“No, effettivamente.”

“Bene, facciamo qualche progresso; si accomodi e accenda la luce.”

Missiroli ubbidisce, con una remissione che lascia trasparire un’antica abitudine a eseguire gli ordini, sia quelli manifestamente prescrittivi, sia quelli più cifrati e indiretti, ma non per questo meno ultimativi.

“Mi dica che cosa l’ha portata qui oggi, signor Missiroli, e cerchi di essere convincente.”

L’uomo non coglie l’ironia di Guerini, dietro la quale si cela una impercettibile apertura di credito nei suoi confronti, motivata da null’altro che una simpatia istintiva.

“La morte di Cesare mi ha sconvolto. Ci eravamo visti pochi giorni fa e gli avevo portato un libro. Volevo riprendermelo.”

Guerini, deluso dall’idiozia di quella risposta, preferisce non insistere, rinunciando a smontare l’inconsistenza della spiegazione.

“Allora, mi diceva che la sua conoscenza con Paladini- Sforza era molto stretta.”

“Eravamo colleghi.”

“Nel senso?”

“Nel senso che eravamo entrambi traduttori.”

“Ah, ora finalmente capisco.”

“Noi non facciamo un lavoro d’ufficio. Possiamo tradurre ovunque.”

“Ero convinto che per tradurre servisse la massima quiete e concentrazione.”

“Non è detto. Molti si chiudono in una specie di bolla inaccessibile e qualunque cosa li disturbi compromette la loro concentrazione, altri no. Io, per esempio, nel silenzio totale mi ci perdo e non riesco a illuminare le parole. Ho bisogno di un po’ di rumore, di gente, di movimento, e per questo ho un mio ufficio un po’ speciale.” Lo sguardo incuriosito di Guerini induce Missiroli a proseguire. “Sono anni che il lattaio sotto casa mi ospita nel suo locale. Mi siedo a uno dei tre tavolini e passo lì tutta la mattina con il mio libro, il mio dizionario e il mio quadernetto. Credo di essere diventato un’attrazione per la clientela, e il lattaio, immagino, se ne farà un po’ un vanto, altrimenti non mi spiego tanta generosità.”

“Curioso.”

“Si, ma io sono un tipo curioso.”

“Eravate amici, oltre che colleghi?”

“Eravamo amici, si.”

“Da molto tempo?”

“Dai tempi dell’università.”

“Approfitto della sua conoscenza tanto approfondita della vittima per chiederle se poteva avere qualche nemico, qualcuno che potesse trarre un vantaggio dalla sua morte.”

Missiroli fa una smorfia di stupore e di disgusto. Da quando la notizia della morte di Cesare ha letteralmente terremotato la sua esistenza, non ha preso in considerazione nemmeno per un istante l’ipotesi che si sia trattato di un delitto e lo spavento per quell’incontro inatteso, nonostante Guerini abbia fin da subito reso esplicita la sua qualifica di poliziotto, non lo ha indotto ad associare la presenza di un questurino con l’alta probabilità statistica che la morte di Cesare non sia stata un atto volontario, ma un crimine penalmente perseguibile commesso da chissà chi e per chissà quale ragione.

“Ma che cosa dice? Omicidio?” grida con una voce acutissima.

(…) “A che cosa stava lavorando?”

“È una cosa delicata.”

(…)

“Perché è così convinto che la morte di Cesare abbia a che fare con il suo lavoro?”

“Si sbaglia, non ne sono affatto convinto. Vado per tentativi. L’unica cosa di cui sono certo è che la natura umana è sostanzialmente prevedibile. Gli assassini hanno sempre due motivazioni: l’amore o l’interesse economico. Tertium non datur.”

“E gli omicidi politici?”

“Quelli per me rientrano nella categoria degli omicidi passionali.”

“Una tesi suggestiva.”

“Non saprei. Questa tesi non è molto popolare tra i miei colleghi.”

“Lei però mi sembra un uomo diverso, uno senza colleghi, per intenderci…”

(…) “Io sono un poliziotto. E basta.” Cerca di congelare quelle due frasi, di coprirle con una corazza gelida, che allontani il pericolo di contatto e di contagio. Missiroli sorride, è abituato a quel genere di reazione.

“Lei è certo un poliziotto, ma la sua tesi sul carattere passionale dell’omicidio politico la colloca ai miei occhi in una posizione isolata e piuttosto eccezionale rispetto alla norma.”

“Non mi ha ancora risposto.”

“Cesare stava traducendo.”

“Non mi sembra una notizia.”

“Un libro piuttosto delicato.”

“In che senso?”

“Un libro sul quale potrebbero scatenarsi molte polemiche.”

“Fatico a seguirla.”

“Conosce Boris Pasternak?”

“No.”

La domanda di Missiroli e l’ignoranza di Guerini in un attimo cambiano i rapporti di forza tra i due uomini: quello che fino allora aveva vestito i panni dell’agnello si trasforma in un istante in leone, e viceversa. L’onniscienza culturale è il tarlo di Guerini. Non confonde la cultura con l’intelligenza e ha troppa esperienza del mondo per illudersi che il possesso di nozioni e informazioni renda i cervelli più scaltri ed elastici, ciononostante avverte le proprie lacune come ferite lancinanti e ogni volta che qualcuno, involontariamente o con sadica perizia, mette a nudo le sue mancanze è come se versasse del sale su quelle stramaledette ferite, facendolo sobbalzare per il dolore.

Il sogno di Guerini è l’erudizione, il possesso fisico, dentro al suo cervello ma anche alle sue braccia poderose e al suo ventre prominente, di milioni di nozioni, citazioni, poesie, titoli, nomi, eventi, personaggi, intrecci, connessioni. Vorrebbe fagocitare una gigantesca biblioteca e conservare memoria di ogni frammento per mettersi in mostra, per affermarsi e non sentirsi secondo a nessuno. Ma non è cosi. Per quanto legga, sono più le cose che gli sfuggono di quelle che gli si attaccano dentro. E ne soffre.

“Pasternak è un poeta russo. Io non l’ho mai letto, ma Cesare, che stava traducendo il suo primo romanzo, mi diceva che era molto bravo.”

“E perché tradurre questo Pasternak avrebbe dovuto mettere a repentaglio la sua vita?”

“Questo non lo so. So che Feltrinelli ha incaricato Cesare su indicazione dello stesso Pasternak, perché da giovane aveva studiato con suo padre Alfredo alla Philipps-Universitat, a Marburgo. Erano diventati molto amici, e così avrà pensato che la sola garanzia di avere una traduzione fedele fosse quella di assoldare un uomo di cui potersi fidare.”

“Ma che cos’è? Un saggio politico? Un attacco all’Urss?”

“Non credo, ed è proprio per questo che fa paura. A quanto ne so, è una storia d’amore.”

(continua in libreria…)

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