Il filosofo Gianni Vattimo racconta l’evoluzione del suo pensiero e la sua vita in un’autobiografia scritta a quattro mani con Piergiorgio Paterlini – Su ilLibraio.it un capitolo

Chi è Gianni Vattimo? Ce lo racconta lui stesso in un’autobiografia scritta a quattro mani con il giornalista e scrittore Piergiorgio Paterlini, dal titolo Non essere Dio, uscito per Ponte alle Grazie in occasione degli 80 anni del filosofo (il 4 gennaio 2016, ndr)

Figlio di un carabiniere calabrese, è diventato uno dei più noti filosofi contemporanei. Nel libro trovano spazio gli amori, i lutti, le passioni, i libri, le amicizie, la politica, le scoperte e gli addii, gli errori e le contraddizioni; nulla viene tralasciato in questa narrazione in cui i fatti privati, da quelli più laceranti fino agli episodi più umoristici, riverberano su quelli pubblici e viceversa, compenetrandosi inestricabilmente.

Così, capitolo dopo capitolo, viene ripercorso il pensiero del filosofo e raccontata, oltre alla sua vita, la storia d’Italia della seconda metà del Novecento, dalla ricostruzione al boom economico, dagli anni Settanta alla globalizzazione, fino a questo primo quindicennio del nuovo secolo.

Su ilLibraio.it un capitolo, per gentile concessione dell’editore:

Mitologie

Vogliamo parlare di Dio? Parliamone. D’altra parte, sono stato io in questi anni a ripetere spesso di essere ridiventato cristiano. Ma soltanto perché Dio per me è esperienza di libertà. Spinoza dice che non è così? Io lo spernacchio. È fondamentale che la mia libertà nasca da un atto di libertà. Non posso concepirmi come il risultato di una concatenazione necessaria. E la filosofia di Martin Heidegger è questa: l’Essere che si dà. Si dona. Accade. Si dà rendendoti possibile. Ti rendo possibile con un atto d’amore.

Il mio maestro Luigi Pareyson diceva che delle origini si può parlare solo tramite la mitologia. La mia mitologia, storicamente, è quella cristiana. Non mi dispiace, perché racconta che Dio mi ama. Non è peggio di altre.

E che Cristo sia morto mi permette di non credere agli dei. Ma se qualcuno ci crede, ok. Non ho ragione di pensare che Minerva sia peggio di sant’Antonio da Padova.

E se è vero che mi sento più religioso di quanto mi sarei aspettato, sia chiaro che il mio ideale si ferma alla carità e al codice della strada. Voglio dire: rispetto le leggi positive della società solo per non fare del male all’altro, ma non c’è alcun fondamento metafisico. Se rivaluto la santità cristiana è perché ho visto persone impegnarsi in cose che io non farei mai, per carità!

Amare Dio. Mah. Non saprei cosa dire, né cosa vuol dire. Capisco meglio amare il prossimo, ma non mi strapperei le budella. Non regalerei tutto ai poveri, svilupperei immediatamente una nevrosi. Devo farmi monaco per essere perfetto? Ma neanche per sogno.

Del resto, non mi sono mai sentito perfetto, anzi.

Mi trascino dentro da sempre un senso di inferiorità, legato alle mie origini povere, proletarie, «deboli» anch’esse. Un’insicurezza sottile, profonda, che non ho mai vinto. E dire che a molti appaio arrogante. Io mi vedo sempre con quell’aria di uno che chiede scusa. Sono la persona meno minacciosa del mondo. Se uno mi sembra più vitale, penso sia più intelligente di me. il primo pensiero debole è il mio. Se mi invitano a parlare in un paesino di provincia, vado, perché non penso di avere qualcosa di più importante da fare. E non penso di valere più di coloro che mi hanno chiamato. Se uno mi vuole, mi merita. È un favore che fa a me, non il contrario.

È una questione di affettività. Non mi sento un maestro, non mi sento un uomo di successo, né mi interessa. Più che essere ammirato, molto più che essere famoso, da sempre voglio essere amato.

E amato e coccolato mi sento, devo dire, in giro per il mondo. Penso che la mia elaborazione filosofica sia finita? Certo che no. Ma è altrettanto certo che non mi sento Hegel: arrivato io, finito tutto, tutti a casa.

Non mi sento immortale né lo vorrei.

Per Heidegger l’accadimento dell’essere è anche legato al succedersi delle generazioni. Se non fossi mortale, non potrei filosofare.

C’è un frammento di Anassimandro che dice: “Le cose pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. In altre parole, ogni cosa lascia il posto all’altra. Se fossi eterno, slegato dalla storicità, direi sempre le stesse cose.

La finitezza dunque non è un problema per me, anzi è una ricchezza. Era Sartre a pensare che l’uomo progetta di essere Dio e fallisce. Io no. Anche nei momenti più felici – e il mio momento totalmente felice è stato tanti anni fa, con un ragazzo con cui è durata un mese – non ho mai pensato «lo desidero per l’eternità». Eterno è l’attimo di pienezza, non qualcosa che dura per sempre.

Non so se credo all’immortalità dell’anima. Oggi assai meno di dieci anni fa, quando ne facevo una questione di giustizia nei confronti degli umili della terra, che non lasciano tracce nella storia del pensiero, dell’arte, delle azioni memorabili. Adesso mi pare più plausibile che sopravvivano proprio l’arte, il pensiero, i valori, ma non l’io e la consapevolezza personale di essere io quell’io. Non credo insomma rimarrà – dopo – una qualche coscienza di noi stessi. Poi chi lo sa.

Certo, se c’è un’altra vita dopo la morte deve essere piena, non angelicata.

Se c’è una vita eterna, la voglio con il mio gatto.

(continua in libreria)

 

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