Recensire una raccolta di recensioni è una pratica quantomeno strana, in particolare nel caso di un autore come Giorgio Manganelli (1922-1990) – L’approfondimeno su “Concupiscenza libraria”, una raccolta che è, allo stesso tempo, un’indagine della propria poetica, della propria idea di letteratura, una Wunderkammer, o meglio un banchetto, un po’ patologico, molto idiosincratico, un po’ manifestante e poeticamente dichiarante…

Recensire una raccolta di recensioni è una pratica quantomeno strana, e ogni volta che si affronta una lettura di questo genere in qualche modo, consciamente o inconsciamente, il recensore al quadrato si pone (o dovrebbe porsi – come sempre) la domanda sul senso di un libro siffatto. Essendo, la recensione, una forma caduca, legata inesorabilmente alla transitorietà di un tempo in costante divenire, all’aggiornamento delle uscite, dei dibattiti quotidiani. Se un libro di recensioni si fa, allora, e se questi articoli nati effimeri resistono alla prova del tempo, e se in generale leggiamo ancora gli scritti dei grandi recensori del passato una motivazione che non sia la semplice maniacalità del lettore idiosincratico per il suo autore feticcio dovrà pur esserci. E di volta in volta se lo si dovrà chiedere e le risposte saranno diverse: una recensione potrà sopravvivere perché esonda dai limiti del suo genere e si fa saggio critico, articolo attuale e interessante ancora oggi; sopravvive in quanto documento storico, traccia del sentire di un’epoca; o ancora come documento personalissimo dell’autore che l’ha scritta e quindi sorta di diario, autobiografia intellettuale; o ancora se un cosa così “futile” (l’aggettivo è di Giorgio Manganelli) resiste è perché la sua “fatuità insolente può fare della recensione un genere letterario più infimo che minore” e, dunque, continua Manganelli, “anche alla recensione può spettare una qualche accoglienza nella disordinata, chiassosa piazza dei mestieri letterari”.

È con quest’ultima indicazione che Salvatore Silvano Nigro, curatore di Concupiscenza libraria di Giorgio Manganelli, propone di leggere di quest’ultima raccolta di recensioni uscita per Adelphi, come diario critico di uno scrittore, senz’altro, come l’autobiografia di un letterato coltissimo e divagante, di un raffinatissimo maestro di retorica, ma anche come “un libro strutturato che nella sua trama racconta la libertà fantasiosa, e l’ingegnosità di fare giornalismo culturale come operazione intrinseca alla letteratura”.

Per usare le parole stesse di Manganelli, Concupiscenza libraria potrebbe leggersi un po’ come uno dei libri a lui più cari, Le Mille e una notte, “in cui continuamente entro ed esco da uno scrittore a un altro, da un libro in un altro, attraverso aditi, porticine, passaggi che si cancellano appena percorsi, in una situazione estremamente fantasiosa ed irregolare” (Un’altra biblioteca).

Giorgio Manganelli, Concupiscenza libraria

Ma di che tipo di giornalismo culturale stiamo parlando, quando parliamo di Manganelli? Senz’altro di un lettore “accanito, lievemente maniacale” (Nell’inferno quotidiano), per il quale “l’amore per i libri parte da un innamoramento, è una passione, è una mania, è una frenesia, è una dolcezza, è uno strazio” (Il terrorista elegante). E questa sua attitudine si riversa nella pratica recensoria, dalla vastità degli argomenti (da L’arte culinaria del latino Apicio ai saggi storiografici di Ginzburg, passando per i romanzi gialli, la letteratura fantastica, i dizionari, autori contemporanei e libri da riscoprire) alle proposte interpretative, spesso acutissime e spiazzanti, e contemporaneamente idiosincratiche, talvolta ignorando i nessi reali e le forze storiche in gioco: così l’eloquenza classica è vista alle genesi del romanzo moderno (dalla Pro Milone di Cicerone al Robinson Crusoe di Defoe il passo pare breve) e così il parallelo più ovvio per la Storia Naturale di Plinio il Vecchio è Bouvard e Pecuchet di Flaubert o, ancora, la lettura attualizzante di un Seneca che se avesse “guardato il nostro mondo non avrebbe usato un termine così estraneo come ‘società dei consumi’; penso che avrebbe parlato di ‘società dei desideri”.

Così i giudizi sono spesso inaspettati, nonché perentori, e talvolta in aperta tendenza contro il canone: “Personalmente, detesto Luigi Capuana: lo ritengo scrittore assolutamente deplorevole, e i suoi racconti e romanzacci come Giacinta sono tra il peggio che abbia prodotto il peggior secolo della nostra letteratura” e a questa premessa segue un elogio e una rivalutazione delle fiabe di Capuana, la sua cosa migliore e che rimarrà (ma la storia è andata da un’altra parte). Anche gli aspetti più concreti e materiali dell’attività letteraria, come la filiera editoriale, la natura tattile e grafica dei libri non sono visti, come poteva essere in un Sanguineti, che si occupa sui quotidiani, negli stessi anni, degli stessi argomenti, quali tracce di processi storici di produzione, ma sono vissuti in un contatto strettamente personale, per la loro natura estetica, feticistica, quasi cultuale: “quel libro ha un che di strano: è di corporatura soda e agiata”, “è un libro, in primo luogo, solido […] ben legato […] di circa settecento grammi. Quando lo si apre, produce quel lieve, delizio scricchiolio libresco, che Charles Lamb pretendeva di ascoltare anche nell’alto dei Cieli”. E d’altronde, per Manganelli, la letteratura si gioca sul campo dell’arbitrarietà: “naturalmente le formule sono arbitrarie, come è arbitrario un verso, un racconto; come siamo arbitrari noi stessi, in quanto smentita al necessario, inattaccabile nulla”.

Non c’è militanza, dunque, in questo giornalismo culturale di Manganelli, piuttosto un tentativo di indagare il “significato” e “l’enigma” della letteratura, talvolta anche a costo di esondare dal limite della recensione (in alcuni casi Manganelli dimentica addirittura di citare il titolo del libro di cui sta parlando, o lo fa solo molto dopo, quasi in chiusura), e sconfinare in celate dichiarazioni di poetica (Io sono il barocco è il titolo di un articolo particolarmente rivelatore in questo senso). E così si spiega anche l’inconsueta attenzione che in queste pagine si ritrova nei dizionari e per la lessicografia, che non è interesse storico, ma forse più propriamente feticismo linguistico: il Guglielmotti è lo “scrigno inesauribile di parole preziose rare, esatte di un’esattezza lievemente patologica” e lo si loda non in quanto lessicografo, ma per la sua capacità scrittoria: “il Guglielmotti è uno scrittore; uno di quei lessicografi ottocenteschi, come il Fanfani, il Rigutini, il Carena, che della definizione esatta, elegante, sottile, avevano fatto un genere letterario, un microscopico racconto, un epigramma”. E allo stesso modo il Brosso, autore del Dizionarietto della lingua italiana lussuosa è lodato per l’attrazione verso il nonsense, per le definizioni stravaganti e pedanti: insomma i lessicografi sono recensiti come scrittori veri e propri, e si capisce bene quanto questa attenzione abbia a che fare con la scrittura letteraria di Manganelli.

Recensendo I narrabondi, un’antologia di scrittori inglesi curata da Ottavio Fatica, a proposito del titolo Manganelli nota: “un neologismo per intitolare una curiosa, intelligente antologia; un po’ scolastica, la parola ‘antologia’, e infatti vorrei trovare una parola più ambigua, più sottile; una volta si diceva ‘crestomazia’, io penserei a qualcosa che stia tra ‘documento’ e ‘manifesto’” (A spasso con la follia). Ecco, qualcosa che ha a che fare col manifesto, ma in senso minore, senza proclami e formule precettive, un’indagine della propria poetica, della propria idea di letteratura, una Wunderkammer, o meglio un banchetto, un po’ patologico, molto idiosincratico, un po’ manifestante e poeticamente dichiarante  – forse è questo il modo migliore per definire Concupiscenza libraria.

 

 

 

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