Hannah Arendt (1906 – 1975) è una voce al di là del pensiero dominante, che ci ricorda quanto sia importante non perdere la relazione con l’altro, per non lasciare che diventi una categoria, un numero, o peggio, una non-persona. L’approfondimento sulla vita, le opere e le battaglie di uno dei più fulgidi esempi di detentrice del libero pensiero

“La verità è che io non ho mai avuto la pretesa di essere qualcosa d’altro o diversa da quello che sono, né ho mai avuto la tentazione di esserlo. […] ho sempre considerato la mia ebraicità come uno di quei fatti indiscutibili della mia vita, che non ho mai desiderato cambiare o ripudiare. […] Ciò che ti confonde è che le mie argomentazioni e il mio metodo sono diversi da quelli cui tu sei abituato; in altre parole, il guaio è che sono indipendente. Con questo intendo dire, da un lato, che non appartengo ad alcuna organizzazione e parlo sempre solo per me stessa; dall’altro, che credo profondamente nel Selbstdenken di Lessing, che né l’ideologia, né l’opinione pubblica, né le ‘convinzioni’ potranno mai sostituire”.

Sono gli anni ‘60 e così scrive di sé Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) in una lettera a Gershom Scholem, in seguito alle disapprovazioni da parte dell’opinione pubblica e del mondo ebraico, per i suoi resoconti sul New Yorker del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Per le sue considerazioni, raccolte nella famosa opera La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, traduzione di Piero Bernardini), la filosofa viene considerata troppo poco ebrea e le sue parole vengono travisate come quasi giustificative nei confronti di uno dei peggiori criminali dell’umanità.

Il “guaio” di Hannah è che è una donna in un mondo di uomini, indipendente, senza paura di fare o dire quello che ritiene giusto, come ribadisce fugacemente in questa intervista.

hannah arendt

La politologa Hannah Arendt è una delle personalità più significative del pensiero novecentesco, che più di altri ha faticato nel cercare di resistere, senza mai smettere di interrogarsi, all’unidirezionalità di alcune correnti di pensiero. Lo ha fatto in un’Europa attraversata e colpita dalle egemonie ideologiche, dalle quali sono discese molte delle trame socio-politiche contemporanee, che ancora oggi muovono le fila delle coscienze collettive.

La sua figura è ancora un modello che non smette di affascinare: recentemente Ken Krimstein, uno dei più importanti cartoonist del New Yorker, l’ha raccontata in una grapich novel, Le tre fughe di Hannah Arendt (Guanda, traduzione di Antonella Bisogno), riuscendo a restituire la complessità di una donna controcorrente.

Le tre fughe di Hannah Arendt Guanda

Attraverso le sue opere più importanti, come La nascita del totalitarismo (Einaudi, 1951, traduzione di Amerigo Guadagnin), La banalità del male, Eeichmann a Gerusalemme e soprattutto Vita Activa. La condizione umana (Bompiani, traduzione di Sergio Finzi) la pensatrice tedesca è stata in grado di collocare le sue teorie in quell’importante interstizio che si è limpidamente tradotto in una valida alternativa alla degenerazione della fede ideologica; concependo il post ideologico non come qualunquismo mascherato da obiettività, quanto piuttosto nell’indipendenza assoluta del pensiero dell’individuo, scevra da ogni tipo di condizionamento da parte di un gruppo sociale, politico o filosofico. Questa onestà intellettuale, unita a un’inarrestabile ricerca delle origini del pensare collettivo, hanno causato ad Arendt non pochi problemi durante il suo percorso accademico e personale, procurandole anche l’inimicizia di molte frange del suo popolo, quello ebraico, come nel caso del processo a Eichmann.

Per un ripasso in 8-bite sul concetto di male in Hanna Arendt:

Arendt non minimizzò mai la colpevolezza di Eichmann, anzi, si disse a favore della condanna a morte, ma ciò che va letto nella sua storia è una domanda ancora aperta, oggi più che mai, sulla differenza tra il chi siamo e il cosa facciamo. Ciascuno di noi, nella propria quotidianità, può ritrovarsi ad agire perché “qualcuno ha detto che si fa così”, ignorando che ogni nostra scelta determina un’inclusione o un’esclusione.

Ne Le origini del totalitarismo, Arendt è la prima politologa a vedere una connessione, in termini di distruzione della vita umana, tra stalinismo e nazismo, e nel libro mostra come le dittature abbiano avuto terreno fertile perché le persone, non riconoscendosi più nella vita attiva di una comunità, si siano lasciate guidare da un’ideologia dando spazio al desiderio di una massa priva di individualità che, in un rapporto viziato con la realtà, ha disimpegnato le persone nella relazione con l’altro. Trasformando l’alterità in una categoria, un numero, una non persona.

Eichmann le permise di provare che senza essere stati dei mostri sadici, la maggior parte di coloro che commisero crimini in seno al nazismo, condividevano una banale e diffusa condizione di rinuncia al giudizio personale. La banalità risiede nel fatto che la mostruosità del gerarca nazista non si trova nel suo essere mostruoso, ma nell’essere un ingranaggio “privo di un pensiero suo” all’interno di una catena produttrice di morte.

Qual è la soluzione di Hannah? Mettersi nella condizione di comprendere l’altro nella relazione, esercitando il pensiero, proprio come lei stessa ha sempre fatto nel corso della sua vita, risultando spesso una voce al di fuori del pensiero dominante e rendendo la sua biografia, dall’infanzia travagliata, all’abbandono della Germania nazista fino al riconoscimento della cittadinanza americana, un percorso di comprensione.

Arendt non smise mai di difendere la sua resistenza all’ideologia maggioritaria, restando ancora oggi uno dei più fulgidi esempi di detentrice del libero pensiero nella civiltà occidentale contemporanea.

Per Hannah Arendt, come dice bene Julia Kristeva nella biografia a lei dedicata (Il genio femminile: Hannah Arendt-Melanie Klein-ColetteDonzelli): “essere vivi e pensare sono la stessa cosa”.

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