Non è un film per cuori teneri. Lo sguardo spietato ed entomologico sulle oscurità dell’animo umano è da sempre alla base di una distanza fredda, a tratti fastidiosa, di una relazione con una forte dimensione sadica fra regista e spettatore, autore e personaggi, che tipicamente e ostinatamente instaura, senza mia abbassare la guardia o fare sconti, il cinema crudele di Michael Haneke… Su ilLibraio.it la recensione di “Happy End”

Non è un film per cuori teneri. Lo sguardo spietato ed entomologico sulle oscurità dell’animo umano è da sempre alla base di una distanza fredda, a tratti fastidiosa, di una relazione con una forte dimensione sadica fra regista e spettatore, autore e personaggi, che tipicamente e ostinatamente instaura, senza mia abbassare la guardia o fare sconti, il cinema crudele di Michael Haneke.

Così appare chiaro fin dall’inizio – l’occhio smartphonizzato e caché di una tredicenne, che osserva e condivide l’animaletto domestico ridotto a cavia agonizzante, non esita a spiare, attraverso lo stesso obiettivo e con analoga intenzione (un occhio che uccide), la madre lamentosa – che il punto di vista che ci consegna questo regista è tagliente e senza speranza. I giochi si fanno tutt’altro che funny. Tanto che la vita al di fuori di questa sala buissima, per quanto dura possa essere, vi sembrerà una commedia sofisticata dopo un paio d’ore in compagnia di personaggi tanto algidi, perduti e senza cuore, e in uno spazio tanto viziato e asfittico da lasciare senza fiato.

happy end

Come per l’Happiness paradossale e grottesca di Todd Solondz, anche qui, attraverso uno humor nero molto più asciutto, misurato e severo, quasi involontario, il titolo appare immediatamente ironico se non antifrastico. Anche senza toccare il nucleo tragico profondo del suo precedente Amour (in cui amore e morte echeggiavano all’unisono inesorabilmente), Happy end costituisce un seguito sui generis del film francofono del cineasta austriaco che gli valse la seconda meritata Palma d’Oro a Cannes (dopo quella a Il nastro bianco), di cui riprende infatti attori e personaggi (Trentignan e la già pianista Huppert, tale padre tale figlia), sviluppa le possibili involuzioni di questo quadretto famigliare carico di vuoto, prendendo spunto per ritrarre, con meno compattezza ed essenzialità che nel primo capitolo, ma con altrettanta inappellabilità, la discreta disperazione della borghesia, ma si potrebbe dire – senza troppe ansie sociologiche – dell’umanità tout court.

La famiglia Laurent, filtrata dagli occhi inumani, o quanto meno anestetizzati e avvelenati della bimba Eve che ne appare il frutto ineluttabile (c’è spesso una dimensione teologica profonda e sconsolata che attraversa le storie di questo regista filosofo che ragiona sulla genesi del Male), è attraversata da una irrecuperabile e originaria inabilità all’amore e alla vita. Il padre della ragazzina è un medico incapace, come uomo, di prendersi davvero cura dei suoi affetti. L’uomo ha poi una sorella, manager senza pietà, che esprime in fondo altrettanta mancanza di vicinanza per il figlio impossibilitato per indole e destino a ereditarne il comando. E poi c’è il nonno, patriarca lucido e disilluso, determinato a ogni costo nel voler porre fine alla sua esistenza, e per questo in una relazione di complicità ed ereditarietà nefasta con la nipotina, rapporto esemplificato da un magistrale e raggelante confronto fra i due, schietto e rivelatore.

L’incidente sul cantiere, ripreso dal punto di vista siderale, statico e inespressivo di una telecamera di sicurezza (in un film senza colonna sonora, e attraversato da lunghissimi silenzi), è un’immagine efficace delle fondamenta fragili su cui si poggia flebilmente e poi frana, con esiti mortiferi, questa società imperfetta degli uomini. Gli spazi disumanizzati sono tanto quelli degli ospedali disabitati e tetri che quelli lucidi e riccamente spogli delle negoziazioni finanziarie, ché la vita severa e la morte certa si decretano attraverso vertenze giuridiche che possiedono analoga violenza delle rese dei conti nelle corti anonime di quartieri periferici, e delle mancate carezze di un focolare spento. Per non parlare della sfera perversa della comunicazione e del virtuale dove, nelle chat e sui social, attraverso il filtro delle apparentemente giocoso e facilitante delle nuove tecnologie (qui solo eufemisticamente camuffate nei nomi, ma parimenti riconoscibili, pervasive e subdole), prendono corpo i fantasmi peggiori e vengono alla luce i lati più indicibili dell’animo, filtrati, deformati ed enfatizzati insieme dallo schermo digitale, che Haneke non ha paura di mostrare senza veli o censura.

E se la fine, terribile e ridicola insieme, non è giustificata dai mezzi (di comunicazione) – Haneke non è così ingenuo da affidare meccanicamente al medium il messaggio – non sembra un caso che le ultime immagini del film passino ancora una volta attraverso la mise en abîme di un touchscreen, segno di perdita di ogni umano contatto con la realtà, anche quella ultima, trasformata in una involontaria comica finale, esito necessario di un umano destino all’inabissarsi, descritto con lieto distacco, senza empatia né catarsi.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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