Federica Bosco torna con “Il nostro momento imperfetto”, un romanzo che sfata il mito della perfezione per ridare vita alle scelte sbagliate, agli errori, alle cadute… – Su ilLibraio.it un estratto

A volte la felicità non risiede nella perfezione, ma nella magia di un momento imperfetto. Lo sa bene Alessandra che credeva di avere tutto: il suo lavoro di insegnante, una famiglia un po’ stramba ma sempre presente e un uomo accanto con cui pensare al futuro. Una vita senza troppi scossoni che varcata la soglia dei quarant’anni dà quella stabilità agognata a lungo. Fino al giorno in cui il suo castello di carte crolla per colpa di un soffio di vento inaspettato. Un soffio di vento che gonfia la tenda di una finestra e sposta tutti gli oggetti in una stanza. Un soffio di vento che porta via con sé la sua relazione d’amore e una buona dose delle sue certezze di fidanzata e donna. E allora meglio mettere i remi in barca, meglio smettere di provare, ricominciare, mettersi in gioco.

Quando la perfezione si spezza non ci può essere spazio per altro. E invece proprio in quei dettagli ormai stonati della sua vita si fa largo una nuova possibilità. Sua sorella parte per un lungo viaggio e le lascia in custodia i nipoti. In una casa come quella di Alessandra che suo malgrado non ha mai sentito risuonare i passi di un bambino, arrivano richieste di affetto, cene condivise e dialoghi improbabili. Arrivano addirittura lezioni in piscina osservate con orgoglio dagli spalti.

Ed è proprio tra quegli spalti che incontra Lorenzo con i suoi modi gentili e il suo ottimismo senza freni. Lorenzo e il suo divorzio ancora fresco e una figlia adolescente che fa i capricci. Tante cose li accomunano, ma tante li dividono. Perché è poco per loro il tempo da dedicare all’amore. Perché il momento sembra sbagliato. Perché quell’incontro pare un azzardo. Perché camminare su una strada dritta e liscia è più facile che su un tragitto pieno di curve e buche. Ci vuole coraggio per vedere il bello in quello che sembra imperfetto, ma forse è solo diverso, sconosciuto. E per questo ancora più speciale.

Dopo il successo di Ci vediamo un giorno di questi (Garzanti) e di Mi dicevano che ero troppo sensibile (Vallardi), Federica Bosco (nella foto di Luca Brunetti, ndr) torna con Il nostro momento imperfetto, un romanzo che sfata il mito della perfezione per ridare vita alle scelte sbagliate, agli errori, alle cadute. Perché non c’è un tempo giusto o uno sbagliato per amare, perdonare, cambiare, vivere. C’è il tempo dettato da ognuno di noi con il suo personale e magico rintocco.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

La presenza dei ragazzi mi aiutò a pensare meno a Nicola. Se non fosse stato per loro è molto probabile che sarei stata risucchiata dal mio triangolo delle Bermude di vino, corsa e stalking.

Occuparmi di loro, dei loro compiti, dei loro pasti e dei loro cuoricini, mi distrasse abbastanza da me stessa e dal mio senso di fallimento, che non mancava di manifestarsi non appena abbassavo la guardia.

Ero arrivata al famigerato bivio, quello dove ogni donna giunge un certo giorno della sua vita, e di cui non si accorge nemmeno troppo, se sufficientemente assorbita dalle proprie soddisfazioni, di qualunque natura esse siano.

Ma è inutile prendersi in giro: anche la carriera più brillante non è sufficiente da sola. Arriva sempre il momento in cui fai i conti con il tempo che passa e il bilancio di ciò che hai costruito. Guardi la strada che ti sei lasciata alle spalle con nostalgia e rimpianto, e ti chiedi dove saresti adesso se avessi fatto altre scelte, se avessi studiato all’estero, se avessi accettato quella proposta, se avessi avuto più coraggio. Forse avresti una famiglia, dei figli, un marito fedele e complice con cui scherzare ancora come ai tempi dell’università e con cui ballare un lento in ciabatte in cucina, avresti una vita piena di disordine, mutui e imprevisti, ma una vita vera, rumorosa, compiuta.

Mentre tutti i diplomi e i certificati appesi al muro non scaldano il cuore la sera.

Perché è sempre l’amore quello che fa la differenza, alla fine del viaggio.

Qualcuno con cui condividere, qualcuno per cui lottare, qualcuno a cui dire «ci vediamo a casa stasera».

E a quasi quarantasei anni, con quella delusione che mi bruciava dentro, sapevo che non ci sarebbero stati altri treni.

Non importanti almeno.

Sì certo, avrei probabilmente incontrato qualcuno prima o poi a un’altra cena o, come tutti, online, ma chi? Un altro Nicola che avrei beccato una notte a chattare su Facebook? E poi? Ancora un altro? Era questo che mi dovevo aspettare? Una giostra di delusioni a ripetizione finché non mi sarei arresa definitivamente, adottando cani e pappagalli, smettendo di lavarmi i capelli e finendo la mia vita dando ripetizioni di fisica a studenti analfabeti.

Questi erano i pensieri che mi assalivano quando abbassavo la guardia, quando cioè non ero impegnata a tenere gli esami, dare lezioni, trovare ricette vegetariane per Tobia o spiegare la teoria del caos ad Apollo.

La nostra intera vita è basata sull’immagine di ciò che il mondo si aspetta da noi: un certo numero di successi da raggiungere, matrimonio, famiglia, figli, pensione, nipoti. Ma secondo la teoria del cervello quantico, tendiamo a prevedere il futuro attingendo da quelle informazioni che ci sembrano plausibili in un continuo calcolo delle probabilità. Il nostro cervello scommette incessantemente sul futuro basandosi su dati acquisiti, e ricalcolandoli ogni volta si presenti un cambiamento, convinto di essere un veggente. Quindi tutta la nostra esistenza, in fin dei conti, è solo un’illusione ottica.

Finché correvo nella mia ruota di criceto in 3D, illudendomi di fare qualcosa di buono e di essere sempre una brava persona nonostante tutto, credevo di essere ancora utile al grande disegno dell’universo, quando mi fermavo, però, la consapevolezza che non lo fossi si faceva lacerante.

Gaia sarebbe tornata a prendere i ragazzi, io mi sarei trovata di nuovo sola e avrei ricominciato a uscire per andare a quegli inutili e infiniti aperitivi che sembravano sempre più un casting fra disperati che non vedono l’ora di trovare qualcuno – uno qualunque – con cui tornare a casa e buttarsi sul divano a guardare serie su Netflix con una tazza di cioccolata. Perché tutti, segretamente, non vedevano l’ora che giungesse la fase pigiama e pantofole, quella del vero amore.

Avrebbero dovuto inventare un bar dove la gente si incontra al naturale, in tuta e calzini antiscivolo, senza trucco e ruota di pavone, perché è il divano il vero banco di prova, dove creiamo la vera intimità mostrandoci per come siamo da soli, dove sviluppiamo la tenacia stando abbracciati scomodi e impariamo l’autocontrollo dalla gestione del telecomando. È lì che si capisce se funzioneremo.

Il resto è tutta una farsa.

(continua in libreria…)

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