Intervista a Gianni Simoni autore di Commissario, domani ucciderò Labruna ISBN:9788850220359

Commissario, domani ucciderò Labruna è un giallo ambientato a Brescia. L’autore è Gianni Simoni, un ex magistrato che ha saputo far confluire la sua pluriennale esperienza in campo giudiziario in un romanzo poliziesco brillante e divertente. Tutto ha inizio quando il commissario Miceli, prossimo alla pensione, riceve un messaggio anonimo in cui si annuncia l’imminente omicidio di tale “Labruna”. Miceli pensa inizialmente a uno scherzo di cattivo gusto, ma quando un uomo con quel cognome viene ritrovato cadavere, comprende di avere tra le mani un caso esplosivo. Quando poi, a breve distanza, giunge sulla sua scrivania un secondo messaggio che profetizza la morte di un “Lobianco”, la situazione precipita. Si scatena allora tra le vie di Brescia una vera e propria caccia all’uomo per impedire al “serial killer dei colori” di mietere altre vittime. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.

D. Commissario, domani ucciderò Labruna è un giallo ricco di suspense e di irresistibili spunti umoristici. Che funzione ha la nota comica nella sua scrittura?

R. Quella di mantenersi aderenti alla realtà, che è fatta di un quotidiano in cui – forse per nostra fortuna – la nota quasi perenne è la normalità, anche se, dietro l’angolo, può sempre spuntare il dramma o la tragedia, come pure il lato comico, la situazione umoristica o paradossale. Ho i capelli bianchi – che costituiscono sempre un buon punto di osservazione – e so che la vita è fatta di tutte queste cose, che si frammischiano tra loro, a volte in modo sorprendente.

D. In questa seconda indagine del commissario Miceli, Lei si serve di uno scenario preciso – la città di Brescia – rinunciando a quell’indeterminatezza che aveva contraddistinto il suo romanzo d’esordio. Quali sono i motivi di questa scelta?

R. Si trattava di Brescia anche nella prima indagine, ma, volutamente, i riferimenti erano ambigui e soltanto un bresciano avrebbe forse potuto capirli. La ragione di questa prima scelta derivava dal fatto che Brescia è la mia città d’origine e per una sorta di amore-pudore avevo preferito lasciare il tutto nel vago. La scelta di una precisa contestualizzazone – che indubbiamente aumenta il tasso di realismo della storia – deriva dal desiderio del mio nuovo editore, che ho condiviso e accettato di buon grado. Ovviamente vi sono alcune “licenze”, a volte volute (vedi la Questura ubicata nel vecchio palazzo di via Musei che ben conoscevo, avendo fatto a Brescia il giudice istruttore per una decina d’anni), altre volte causate da una lontananza che ha un po’ offuscato il ricordo.

D. In che cosa è diverso Miceli dai commissari dei gialli italiani?

R. Miceli è un vecchio galantuomo al quale non restano molti anni di carriera. È apparentemente burbero, forse per celare la sua innata generosità e, magari, per difendersene. Agisce rispettando le regole e, spesso, è dubbioso quanto basta (e quanto occorre). Guarda con una punta di sospetto, o di fastidio, le nuove tecniche investigative basate su una tecnologia a cui fatica ad abituarsi e preferisce affidarsi alla ragione e al suo “mestiere”, al pari dell’amico Carlo Petri, ex giudice istruttore.

D. Com’è nata l’idea del “serial killer dei colori”?

R. Parlare di un serial killer, in questo caso, è forse inesatto, perché il protagonista negativo si muove attraverso un piano molto lucido per raggiungere un preciso obiettivo (cosa che non fa il serial killer ). Quanto ai “colori”, l’idea, a suo modo perversa, nasce nella mente dell’assassino, con un intento che vuole essere, a un tempo, sviante e beffardo.

D. I personaggi chiamati ad assicurare alla giustizia il serial killer non sono certo immuni da difetti, anzi. Lei presenta una galleria di alti funzionari, ispettori, agenti che si segnalano per comportamenti riprovevoli. Si tratta di una deformazione ironica della realtà o siamo davvero ridotti così male?

R. Tornano in ballo i capelli bianchi e un’esperienza che viene da una quarantina d’anni passati in magistratura, con conseguente conoscenza di colleghi e di appartenenti alle varie “forze dell’ordine”. Non è una deformazione ironica della realtà, perché in ogni categoria vi sono le persone intelligenti e quelle sciocche. Coloro che sentono profondamente la responsabilità che deriva dal proprio ruolo e quelli che si accontentano di portare avanti stancamente un mestiere. Non è cosa di oggi, ma sotto questo profilo, non direi che siamo poi ridotti così male, perché le persone intelligenti, preparate e responsabili sono, a mio avviso, prevalenti.

D. Il legame tra magistrati e letteratura sta diventando sempre più stretto. Com’è nata in Lei la vocazione letteraria?

R. Ci andrei cauto a parlare di “vocazione”. Per me la scrittura è, anzitutto, divertimento e il miglior augurio che posso farmi è che lo sia anche per i miei venticinque lettori (con Lei, ventisei).

D. Che cosa pensa dello stato della giustizia in Italia. Dobbiamo essere preoccupati?

R. Non preoccupati, ma preoccupatissimi. Che il nostro sistema giudiziario non funzioni è cosa antica, e non vi si rimedierebbe neppure con un incremento di uomini e di risorse, che pur sarebbe urgente. Il problema di fondo sta a monte e risiede nel nostro ordinamento processuale che prevede tre gradi di giudizio. A ciò si aggiungano le varie leggi e leggine, che sono seguite all’introduzione del nuovo codice di procedura e che sembrano fatte apposta per complicare e dilatare l’iter processuale. La vera riforma dovrebbe quindi consistere in una semplificazione dell’iter e in una revisione – utopistica – delle circoscrizioni giudiziarie, a cui si sono sempre opposti interessi localistici e, purtroppo, trasversali. Alle nostre lungaggini non si rimedia certo con il processo breve che, al di là di ogni pur fondata illazione, avrebbe soltanto l’effetto di cancellare centinaia di migliaia di processi, con buona pace delle parti offese (che sono sempre state quasi totalmente ignorate). Ciò che è comunque davvero insopportabile e pericoloso è l’attuale scontro tra magistratura e politica, destinato, per interessi particolari, a rinviare a tempo indeterminato una riforma degna di questo nome. Anche la magistratura ha i suoi torti ( non sono mai stato afflitto dallo spirito di categoria ), ma parlare di “magistratura politicizzata” è platealmente strumentale. I momenti di “sovraesposizione” della magistratura e di una sua “supplenza”, sono sempre derivati da una latitanza della classe politica-amministrativa, perché soltanto la politica e la pubblica amministrazione possono essere in grado di prevedere quegli anticorpi che evitino sul nascere la malattia. Il magistrato, anche inquirente, non può invece che intervenire a “paziente morto”. Ecco perché, come magistrato, ma ancor prima come cittadino del nostro paese, ho sempre rivendicato il primato della politica, ovviamente con la P maiuscola. Ma nel nostro paese esiste veramente una politica con la P maiuscola?

Intervista a cura di Marco Marangon

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