“Mi piace la definizione roman à clé (romanzo a chiave). Trovo che autofiction sia un termine controverso…”. I libri di Olivia Laing sono un viaggio fisico nei meandri più oscuri d’America e del mondo, e al tempo stesso nella mente dei suoi artisti più importanti. La sua prosa è in grado di sviscerare aspetti biografici, trasformando il biografismo in letteratura. Nell’intervista a ilLibraio.it, la scrittrice inglese tocca i temi più importanti della sua scrittura: la narrazione dell’interiorità attraverso i luoghi, come la scrittura può scandagliare la realtà e la fragilità psichica di chi prova a fare arte (con alcune necessarie distinzioni di genere)

Cosa accomuna le vite di Ernest Hemingway, John Cheever, Tennessee Williams e Francis Scott Fitzgerald? La risposta non è solo la scrittura, e nemmeno aver vissuto nei grandiosi Stati Uniti del secondo Dopoguerra. L’alcolismo, e più nel profondo la sofferenza mentale, sono ciò che li accomuna e in certi casi mette in diretta relazione alcuni di loro.

Viaggio a Echo Spring (Il Saggiatore, 2019, traduzione di Francesca Mastruzzo e Alessio Pugliese), come anche Città Sola (2018), partono dall’esplorazione di un luogo, per poi raccontare la vita e le opere di grandi artisti legati a un tema esistenziale: se in questo l’intera America serve per scandagliare l’alcolismo, il precedente analizza la solitudine di chi abita New York.

Con questi due libri, pur difficili da incasellare come “saggi”, Olivia Laing (nella foto di © Liz Seabrook, ndr), autrice inglese classe ’77, è artefice di uno stile immediatamente riconoscibile, in cui si intrecciano romanzo, memoir, poesia e critica.

Crudo, libro del 2018 che uscirà a breve anche in Italia, sempre per Il Saggiatore, ha segnato il passaggio a un nuovo stile, sperimentale e inedito: prendendo le sembianze del personaggio di Kathy Acker, artista americana morta nel 1997, l’autrice racconta i giorni trascorsi in vacanza tra la Toscana e Roma, e il rientro a casa in Gran Bretagna.

Olivia Laing, il tema di Viaggio a Echo Spring è il rapporto tra grandi scrittori americani e l’alcolismo. Perché parlarne oggi e perché proprio l’alcool?
“La dipendenza dagli alcolici non è sparita! L’interesse è legato alla mia esperienza personale durante l’infanzia, ma anche dal fatto che sono consapevole che si tratta di una condizione che tocca centinaia di migliaia di persone, in quanto dipendenti loro stessi o perché conoscono o amano qualcuno con tale dipendenza”.

Uno degli aspetti più interessanti sia di Città Sola sia di Viaggio a Echo Spring è proprio la sua ricerca: come si è evoluto il suo metodo tra un libro e l’altro?
“Echo Spring è un libro strutturalmente ambizioso, perché ho provato a mappare le fasi dell’alcolismo al di sopra di un viaggio, reale, lungo l’America. Ho impiegato un sacco di viaggi e anche lavoro di archivio, specialmente per scoprire le connessioni tra i sei autori. Per certi versi, Città sola è più semplice, perché si sviluppa quasi per intero sull’isola di Manhattan. Anche in questo caso, si è trattato di una ricerca di archivio enorme. Volevo raccontare la storia della solitudine e la storia dell’alcool attraverso le vite di molte persone, per poter andare in profondità: come si sono sentite, qual è stato il costo e quali i benefici, se ci sono stati”.

Prima di iniziare questo lavoro era legata a qualche scrittore in particolare, che non poteva essere escluso per nessuna ragione?
“Sì! Tennessee Williams. Il titolo viene dall’opera La Gatta sul tetto che scotta, che ho letto per la prima volta a 17 anni, al liceo. Sono cresciuta in una famiglia di alcolisti e quella fu la prima volta che vidi l’alcolismo descritto in letteratura. Tutte le dinamiche, tutti i segreti. Sapevo sin dall’inizio che era fondamentale”.

Lei spiega la ragione per cui sceglie di non raccontare di scrittrici; il genere sessuale fa qualche differenza, anche nell’approccio con i problemi di salute mentale?
“Ho scritto un lungo essay sul tema alcool e scrittrici, che sarà contenuto nella mia nuova raccolta di saggi, Funny Weather, che arriverà presto in Italia. Anche le donne, ovviamente, diventano alcoliste, ma la cosa interessante riguardo le scrittrici del ‘900 era il modo in cui il bere scaturiva dalla frustrazione e dal dolore causato dall’essere artiste in un periodo molto più difficile”.

Ad esempio?
Jean Rhys, Patricia Highsmith, Jane Bowles, Elizabeth Bishop: erano tutte artiste dotate di un talento enorme e selvaggio, le cui opinioni e libertà erano limitate dal proprio genere. Come dico alla fine del saggio, i dadi truccati a proprio sfavore avrebbero portato al bere anche la donna più sana”. 

L’alcool è ancora un problema per gli scrittori americani?
“Non vivo più negli Usa, ma l’ultima volta che ci ho fatto caso ne circolava ancora parecchio. Certo, viviamo in un’epoca differente, e la dipendenza prende molte forme. Antidolorifici, oppioidi, il web… di questi tempi non mancano le sostanze e le abitudini che danno dipendenza”.

Ma le menti inquiete sono favorite quando si tratta di scrittura (e di arte in generale)?
“Non ritengo che dobbiamo essere infelici per fare arte, allo stesso tempo penso che il desiderio di essere artisti sia spesso strettamente legato a situazioni o infanzie infelici. C’è un desiderio di creare qualcosa di integro e di attentamente rifinito a partire dai brandelli o, al contrario, da materiali molto poveri”.

Si tratta di un tema ricorrente negli autori di cui scrive in Echo Spring.
“Sì, l’infelicità o l’ansia che li ha portati a essere alcolizzati era la stessa che li spingeva come artisti”.

Attingere alla realtà è un pilastro del suo lavoro, ed è anche una tendenza centrale nella letteratura contemporanea. Perché viene ricercata così tanto?
“Odio dover inventare. Lo odio. La realtà è l’elemento che mi accende come artista. La sfida di raccontare la storia vera nel miglior modo possibile. Il più strano, il più bello, il più armonioso. La vita vera è molto più coinvolgente e strana di qualsiasi cosa mi auguro di poter mai inventare”.

Nell’intervista di Chris Krauss su The Paris Review, prendete entrambe le distanze dal termine autofiction: perché? C’è una definizione in cui si sente più a suo agio?
“Mi piace la definizione roman à clé (romanzo a chiave). Trovo che autofiction sia un termine controverso”.

Perché?
“Suggerisce che si tratti di una novità. Ma già Christopher Isherwood scriveva ‘autofiction’, e così Proust, per fare solo due esempi. Tutti gli scrittori usano materiale preso dalle proprie vite, che sia sepolto in profondità o messo volutamente in mostra. Mi interessa molto di più ciò che il libro prova a realizzare, piuttosto che la tecnica che usa per riuscirci”.

Ha iniziato a lavorare a Crudo mentre era in Italia. Che ruolo ha avuto nel processo della scrittura?
“Il libro è una sorta di lettera d’amore per l’Italia! Ho avuto l’idea mentre ero in vacanza in Toscana, dove ho scritto la prima parte, e poi ho proseguito a Roma. L’atmosfera di lusso e bellezza, ma anche il profondo disagio a causa delle notizie, di internet, del caldo, ha impostato il tono per il resto della scrittura. Non potrei averlo ideato in nessun altro luogo”.

Visto che il libro deve ancora essere pubblicato in Italia, cosa potrebbe dire di Kathy Acker a chi non la conosce, e perché proprio lei?
“Kathy Acker è un avatar per i nostri tempi. Ha scritto del terrorismo e del fascismo e dell’aborto e dell’abuso sessuale, di tutti i temi oscuri della nostra epoca. Ha visto il futuro. Era un’artista sperimentale, una piratessa che ha fatto un assalto al canone letterario. Rubò tutto quello che le serviva, e lo cambiò in qualcosa di nuovo. È stata originale, e ha guardato senza paura agli orrori dell’epoca. Non avrei potuto scrivere Crudo dalla prospettiva di nessun altro, e mi ha fatto capire con quanta urgenza la sua voce ci serva proprio in questo momento”.

Fotografia header: Olivia Laing - foto di © Liz Seabrook

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