Dalla collera di Achille all’Inferno di Dante, fino alla rabbia dei nostri giorni. Tornano le riflessioni sui vizi capitali della scrittrice Ilaria Gaspari: è il turno dell’ira (prima parola della letteratura occidentale, con l’Iliade)

Se volessimo ricordare la prima parola della letteratura occidentale – proprio come si ripete la parola che per prima un bambino piccolo ha pronunciato distintamente nella sua cantilena di balbettii sperimentali – ci ritroveremmo di fronte al fatto, piuttosto stupefacente, che quella parola è ira.

Il primo verso del proemio dell’Iliade si apre proprio con l’accusativo della parola ménis che, in greco, significa per l’appunto ira. È la poderosa esplosione della collera di Achille – e la sua decisione di dar seguito allo scoppio dell’ira con una raffinata vendetta che prevede di prolungare indefinitamente le ripercussioni dell’offesa – a mettere in moto il marchingegno del racconto della guerra di Troia, che era già in corso da un pezzo quando Achille si infuriò, ma che conosceremo a partire proprio da quella sua rabbia selvaggia, la quale ebbe la funesta conseguenza di aggravare enormemente la ferocia della guerra.

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La rabbia di Achille è quella di un uomo che si vede sottrarre quel che è suo di diritto: nella fattispecie la schiava Briseide, la sua preferita. E (anche se a guardare la vicenda con gli occhi di oggi qualcuno potrebbe avere la tentazione di indignarsi più che altro all’idea di una ragazzina trattata come un trofeo e un oggetto di proprietà) l’ira di Achille fu sicuramente più funesta che spropositata: è la reazione a un’ingiustizia palese, alla prepotenza di Agamennone, il capo dell’esercito greco, che abusa del suo potere mettendo a repentaglio la reputazione del grande campione, del semidio Achille. Con la sua ira, Achille vuole riscattare il proprio onore – a costo di dare l’abbrivio a una catena infinità di calamità, che decimeranno l’esercito degli Achei.

La rabbia di Achille scoppia come una passione irresistibile, sanguigna, violenta, aggressiva, ma oltre a essere una reazione immediata alla ferita inferta all’orgoglio dell’eroe dal sopruso di Agamennone, ha anche un riflesso più razionale, che nasce dalla convinzione – al limite della superbia, diremmo forse oggi – delle proprie ragioni, dalla pretesa di ottenere una riparazione che risarcisca dell’affronto. Come un vino troppo sincero, l’ira alla lunga può inacidire nei fumi del risentimento. Per questo perdura nella freddezza dell’offesa: una fase di rabbia gelida, passiva (o per meglio dire, passivo-aggressiva), in cui si condensa l’ostinata richiesta di una soddisfazione pubblica alla ferita inferta alla propria immagine sociale.

Nel quadro di una ‘società della vergogna’, come la sociologia ha definito molte società antiche, fra cui quella greca – cioè in un contesto in cui la valutazione delle proprie azioni e del proprio prestigio ha una preponderante componente ‘pubblica’ che nasce dal giudizio, dalla stima, dal rispetto degli altri, un’ira che come quella di Achille nasce in risposta a un aperto sgarro, ha una sua logica e delle ragioni sue, ben chiare, che persino la ragione riconosce: serve a riparare al sovvertimento di un rapporto di potere, a restaurare un certo prestigio. È un’ira che la filosofia greca rispetta – purché non cada nel baratro dell’eccesso, purché si mantenga aderente al limite del ‘giusto mezzo’ – perché è il pendant necessario dell’assetto sociale su cui si fonda l’immagine dell’uomo greco. Ma l’ira, questa passione così ‘sociale’ e così umana, così legata al senso dell’ingiustizia, ha anche un’altra faccia: un aspetto animalesco, ingovernabile, spaventoso. Ha una faccia di Gorgone aggressiva e potenzialmente folle, che paralizza nel terrore l’oggetto della sua esplosione. Caso unico fra i sette vizi capitali, che nella loro versione più eccessiva sono in genere comici (fa in fondo ridere il goloso pantagruelico, come fa ridere l’avaro ossessionato dalle spese; fa ridere l’erotomane che il suo vizio rende debole, come fa ridere il pigro cronico; fa ridere il superbo che si crede chissà chi, e l’invidioso patologico che spia i successi degli altri), l’ira smodata, ‘biliosa’, che prende fuoco in quattro e quattr’otto, può fare paura, perché ha un’eversiva violenza che atterrisce istintivamente chi la vede scatenarsi come una tempesta. È, infatti, l’ira, insieme passione e vizio, anche nelle classificazioni della scolastica: groviglio inestricabile, ambiguo, di un’aggressività forzatamente ancipite – rivolta verso chi ci fa infuriare, ma nel ribollire della rabbia, anche verso noi stessi, che soffriamo le pene della vergogna, dell’indignazione, della ferita che brucia, dell’imperfetto risarcimento offerto dalla vendetta. Fa spavento, nella tragedia di Sofocle, Aiace folle di rabbia perché gli sono state negate le armi di Achille (proprio lui!). Aiace, preda di un incantesimo che rende la sua rabbia incontrollabile e grottesca, fa spavento mentre, cieco per la collera, massacra un gregge di pecore credendo di uccidere gli Atridi. Fa spavento, però, pure l’ira sacrosanta di Mosè che vede il suo popolo adorare il vitello d’oro: nella Bibbia non mancano scene di ira incontrollata, da cui neppure il Dio dell’Antico Testamento pare essere immune. L’ira di Dio non è solo un modo di dire.

 

Questa passione fisica, che deforma il corpo riportandolo a un’aggressività animale, nel settimo canto dell’Inferno di Dante si trasforma in uno spettacolo  inquietante: nel pantano della livida palude stigia, sono immerse “genti fangose”. Tutti nudi come vermi, hanno le facce scure, e inoltre sono costretti all’infinito ripetersi di un’azione tanto inutile quanto violenta:

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.

Oggi – nella generica, apparente indulgenza che l’allentarsi degli aspetti più repressivi della ‘buona educazione’ concede alle manifestazioni considerate spontanee, immediate e ‘passionali’ dei sentimenti che ci attraversano – l’ira sembra essere vista, come molte di quelle attitudini all’eccesso che hanno un passato da vizi capitali, con una certa comprensiva condiscendenza, che nasconde però un lato inquietante. Da una parte, quando si tratta di un atteggiamento che, per quanto aggressivo nelle intenzioni, come un vulcano dormiente appare tutto sommato innocuo, la percepiamo quasi con simpatia – come una debolezza come tante, il tratto tipico di un carattere impetuoso e appassionato, che prende fuoco in fretta.

Questo, naturalmente solo fino a quando l’esplosione di una rabbia isolata e incontrollata non porti a conseguenze impreviste, magari addirittura delittuose. A quel punto, subentra un’altra rabbia, non più individuale ma collettiva: l’ira dell’opinione pubblica, che si forma e si fomenta grazie alla possibilità di comunicare pure fra sconosciuti, che si cementa in un affascinante contagio di passioni tristi, e saprà rivolgersi direttamente contro il colpevole, reale o presunto, per un sommario regolamento di conti. Qualche volta la rabbia degli spettatori, incidentalmente, lambirà anche la vittima che, se è meno che morta, potrebbe tranquillamente essere accusata di ‘essersela cercata’. Il fatto è poi che in questa fase storica (per una varietà di ragioni fra cui sarei tentata di mettere ai primi posti la generica precarietà del lavoro accompagnata da una costante pressione a una fantomatica ‘realizzazione’ personale), l’insicurezza individuale è amplificata dalla generica sensazione di essere perpetuamente minacciati e soli: la rabbia collettiva sembra una risposta alla solitudine della paura. Il borbottio di questo genere rabbia viene poi sapientemente cavalcato e rinfocolato, senza troppi scrupoli, da politiche e movimenti populisti. Ma come nella palude Stigia, sotto lo sbranarsi inutilmente violento di quei disperati che ‘con sembiante offeso’ si danno addosso, a suon di testate e calci, sotto l’acqua è gente che sospira.

Ilaria Gaspari - foto di Angelo Palombini
Ilaria Gaspari – foto di Angelo Palombini

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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