Lo scrittore francese Jean-Baptiste Del Amo si racconta con ilLibraio.it in occasione dell’uscita di “Regno animale”: “Il mio scopo era scrivere una storia familiare e soffermarmi sull’eredità che in quella famiglia si tramanda di generazione in generazione”. Tra i tanti temi affrontati nell’intervista, il maltrattamento degli animali e gli allevamenti intensivi: “Quando cerchiamo di dominare e costringere la natura e gli animali il loro desiderio di libertà prende il sopravvento e ha la meglio”

In un angolo recondito della campagna francese, il giovane Marcel è cresciuto nella fattoria di famiglia, tra l’odore del fieno e la compagnia degli animali, una realtà che ha dovuto abbandonare ancora troppo giovane, per raggiungere il fronte della prima guerra mondiale. Quando torna a casa, Marcel non è più lo stesso: è ricoperto da cicatrici, ha perso un occhio e parte dello zigomo, ma ancor più mutilata è la sua umanità, spezzatasi al fronte e sostituita dall’alcolismo; non gli rimane altro che buttarsi nel lavoro, riprendere in mano la fattoria, la falce e l’aratro, lavorando senza tregua nel porcile. Oltre cinquant’anni dopo, nel 1981, la porcilaia è diventata un allevamento intensivo di maiali, costretti in spazi minuscoli e circondati dalle loro deiezioni; una realtà maleodorante e violenta, l’unica eredità che Marcel lascia ai figli e ai nipoti, che dovranno trovare un modo per mandare avanti l’azienda di famiglia nonostante le difficoltà.

La soluzione a tutti i problemi economici della fattoria sembra presentarsi sotto la forma del verro: un incrocio mostruoso tra un maiale e un cinghiale, una bestia enorme che potrebbe spingere la produzione al massimo delle sue possibilità, come una Chimera mitologica, frutto della follia produttiva.

È la storia di una famiglia, quella narrata in Regno animale (Neri Pozza, traduzione di Margherita Botto) dallo scrittore francese Jean-Baptiste Del Amo (pseudonimo di Jean-Baptiste Garcia). L’autore 36enne narra una saga familiare che va di pari passo con la storia dell’evoluzione del lavoro agreste, soprattutto dell’allevamento, che con il mutare dei mezzi di produzione, delle tecnologie e delle richieste del mercato, si fa sempre più violento e spietato. ilLibraio.it ha incontrato l’autore per parlare del suo nuovo libro.

regno animale jean-baptiste del amo neri pozza copertina

Jean-Baptiste Del Amo, come è nata l’idea di scrivere Regno Animale?
“Mi è sempre difficile capire da dove venga l’idea per un libro: magari è qualcosa che ho covato per anni e anni, prima che prendesse forma; ci sono tanti elementi che entrano in gioco, piccole ossessioni, un film che mi ha influenzato, istanti vissuti, diversi fattori che si sedimentano nel tempo. Il mio scopo era scrivere una storia familiare e soffermarmi sull’eredità che in quella famiglia si tramanda di generazione in generazione”.

Quindi, in questo caso, l’allevamento di maiali.
“Infatti c’è stato un altro elemento che ha avuto grande influenza su di me: ho visitato un allevamento intensivo di suini, un’esperienza che mi ha molto colpito. Mi ha colpito abbastanza da convincermi che questo doveva essere lo sfondo della mia storia familiare, non soltanto come palcoscenico, ma anche come metafora dell’umanità dei personaggi, cercando, attraverso i maiali, di dimostrare ai personaggi cosa stavano diventando”.

Voleva che i maiali diventassero una metafora del genere umano?
“Non proprio, sapevo di non voler assolutamente cadere nell’antropomorfismo. Quindi ho scelto di guardare e rappresentare gli animali come attraverso un obiettivo fotografico, una telecamera, un’immagine. Osservando il loro aspetto corporeo, la loro postura e cercando di interpretare da quell’immagine le loro sensazioni, quelle che potevo dedurre dalle loro condizioni fisiche”.

A questo proposito, il suo libro si caratterizza proprio per un’estrema precisione nelle descrizioni, sia a livello estetico che sensoriale.
“Vorrei dire due cose in merito: prima di tutto ci tengo a sottolineare che la dimensione fisica e corporea è sempre molto importante per me. La dimensione fisica da cui ci arrivano tutte le sensazioni intese come percezioni dei nostri cinque sensi”.

E la seconda?
“La seconda è una visione del corpo inteso a ricordarci come tutti siamo destinati a deperire e scomparire. Ci ricorda che facciamo tutti parte di un unico universo, la grande famiglia degli esseri viventi”.

Tanto noi quanto gli animali.
“Questo ci accomuna agli animali, perché entrambi abbiamo un corpo e siamo destinati a morire e deperire esattamente come loro e penso che questo sia estremamente bello e poetico: il fatto che il nostro corpo ci ricordi costantemente quanto è breve e fugace la vita. Per questo motivo i miei personaggi vivono e sono rappresentati attraverso il loro corpo e quello che al loro corpo accade, dalla sessualità alla morte, aspetti poco gradevoli che però trascendono la dimensione della bruttezza per diventare estremamente poetici”.

Da un punto di vista fisico, l’abbrutimento dei suoi personaggi procede di pari passo con l’abbrutimento del lavoro, della produzione e degli animali, fino alla creazione del verro: il verro indica un punto di non ritorno?
“Il verro rappresenta il sistema capitalistico della produzione portato al suo estremo, la modificazione genetica dell’animale fino alla creazione di una bestia contro natura; ma è un processo che, sebbene in modo diverso, avviene veramente: questi maiali vengono modificati geneticamente in modo da essere massimamente produttivi e resistenti, caratteristiche artificiali che li rendono delle vere e proprie Chimere, dei mostri che non esistono in natura”.

Almeno fino a quando il verro scappa.
“Scappa e ritrova la sua libertà, diciamo, sente il richiamo della natura e si emancipa dalla sua prigionia, ritorna allo stato selvatico da cui un animale dovrebbe provenire. Questo per dimostrare che anche quando cerchiamo di dominare e costringere la natura e gli animali il loro desiderio di libertà prende il sopravvento e ha la meglio”.

Dunque il messaggio finale vuole essere positivo?
“Effettivamente forse questo è uno dei pochi slanci di positività e di luce che possiamo intravedere nel libro. Nel frattempo l’allevamento sta andando in malora e le persone stanno cominciando, lentamente, a impazzire “.

La stessa caccia al verro sembra dettata dalla follia…
“Sì, la ricerca del verro nella foresta è come una ricerca onirica, la caccia a un animale mitologico che alla fine ci fa persino dubitare della sua esistenza. La ricerca è un’ossessione legata alla convinzione che se l’animale verrà trovato e portato a casa tutto andrà per il meglio”.

Lei crede che una letteratura di denuncia, come la sua, possa influenzare l’opinione delle persone a proposito dell’allevamento intensivo?
“Direi assolutamente di sì, soprattutto perché quando ho cominciato a scrivere la storia di questa famiglia per me si trattava di una saga familiare; dopo, quando ho iniziato a parlare con i miei lettori, mi sono accorto che c’era questa dimensione molto diversa e molto più ampia dei diritti degli animali”.

L’ha sorpresa che i suoi lettori vedessero qualcosa di diverso nel suo libro?
“Mi ha sorpreso positivamente: nel senso che soltanto dopo sono entrato in contatto con questo aspetto più politico e militante, non era nelle mie iniziali intenzioni. Sicuramente un libro offre al lettore uno sguardo sul mondo, per cui il lettore può vedere il mondo attraverso occhi diversi. Probabilmente, questo è in se stesso un atto politico”.

Quindi i lettori, secondo lei, hanno il potere di fornire all’autore un’altra interpretazione del suo stesso libro?
“Certamente. Magari ci sono autori che pianificano a tavolino la loro scrittura, architettandola nei minimi dettagli, ma io non sono così: scrivo in modo istintivo e ci sono moltissimi aspetti della mia scrittura sui quali mentre scrivo non ho alcun controllo, me ne rendo conto soltanto dopo aver finito. Ed è lì che arriva il contributo esterno, che può addirittura aiutare me a capire me stesso e la mia scrittura”.

Ha un suo metodo di scrittura?
“Purtroppo no, non conosco la ricetta. Sarebbe bello averne una ma per me è un’esperienza che fa sempre girare la testa, diventa come un vero e proprio viaggio, che non faccio da solo, ma con i miei personaggi, con i quali convivo per mesi e per anni a seconda di quanto mi ci vuole a scrivere il libro. E non so mai dove mi porterà questo viaggio, so solo che il mio obiettivo è quello di cercare di essere più sincero e trasparente possibile”.

Quanta parte di autobiografismo c’è nel suo libro?
“Sicuramente c’è qualcosa di me in questo libro, qualcosa della mia esperienza personale e della mia vita familiare. Trovo molto difficile tracciare una linea che separi quello che è il mio vissuto dalla finzione: quello che faccio, spesso, è prendere un elemento dalla realtà e poi trasformarlo; lo deformo e lo elaboro facendolo diventare qualcosa di altro e di estremamente diverso. Ma è un’esperienza coinvolgente e faccio molta fatica a dire che cosa è esperienza vissuta e che cosa invece non lo è”.

Descrive la scrittura in un modo molto simile alla lettura.
“C’è questo parallelismo, ma c’è anche un elemento diverso: io creo un mio universo, sono io che lo gestisco e io che posso farne quello che reputo opportuno. Quando scrivo un libro è un po’ come l’esperienza del sogno, quando capita di ricordare qualcosa e non sapere se l’abbiamo vissuta veramente o se l’abbiamo sognata. Ecco, la stessa cosa mi capita con la scrittura: mi ritrovo a chiedermi se l’ho vissuta davvero, mentre i personaggi me li porto dietro come dei ricordi, come se vivessero di vita propria. E quando finisco di scrivere un libro sono sempre un po’ deluso perché prima c’era tutta questa vita parallela e alla fine lì c’è un oggetto, che la contiene tutta quanta. Allora è un po’ deludente”.

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