Wang Di per oltre cinquant’anni finge di non aver trascorso parte della sua adolescenza imprigionata in un bordello con decine di altre donne che, come lei, avevano solo una colpa: essere nate in un paese invaso dall’esercito giapponese. “Storia della nostra scomparsa”, romanzo d’esordio di Jing-Jing Lee, fa riferimento a una questione per molti anni “dimenticata”: le donne di conforto dell’esercito giapponese… – L’approfondimento

Storia della nostra scomparsa (Fazi, traduzione di Stefano Tummolini), romanzo d’esordio di Jing-Jing Lee (in copertina ritratta da Aline Bouma, ndr) è un libro sulla guerra. Ma non è quel tipo di “libro sulla guerra” fatto di soldati, scontri armati, nazisti, che ci si immagina, in particolare pensando alla seconda mondiale.

storia della nostra scomparsa

Ambientato a Singapore durante l’invasione giapponese – che coincide con gli anni della seconda guerra mondiale  – Storia della nostra scomparsa ruota attorno a una donna distrutta dal conflitto che tenta di lasciarsi alle spalle il passato.

Il romanzo combina capitoli ambientati negli anni Quaranta e raccontati dal punto di vista di Wang Di – una ragazza, e poi donna, di origine cinese che, dopo essere stata sequestrata dall’esercito giapponese, vive per anni come donna di conforto – con sezioni che hanno come protagonista la donna ormai anziana e un ragazzino, impegnato a cercare la vera storia della sua famiglia.

Come avverte la citazione in apertura al volume, tratta da L’assassino cieco (Ponte alle Grazie) di Margaret Atwood, “il miglior modo per tenere i segreti è fingere di non averne”; e così vive per gran parte della sua esistenza la protagonista di Storia della nostra scomparsa.

Wang Di, il cui nome significa “augurio di un fratello” –  elemento più che esemplificativo della considerazione delle figlie femmine nella sua famiglia di emigrati cinesi – per oltre cinquant’anni finge di non aver trascorso parte della sua adolescenza imprigionata in un bordello con decine di altre donne che, come lei, avevano solo una colpa: essere nate in un paese invaso dall’esercito giapponese.

La storia di Wang Di – di finzione, ma ispirata a delle vicende legate alla famiglia dell’autrice – riprende una questione per molti anni “dimenticata”: non solo a Singapore, ma anche in Corea e in molti altri paesi del sud est asiatico occupati dall’esercito nipponico, giovani donne venivano portate via dalle famiglie e costrette a prostituirsi per provvedere allo svago dei soldati. Solo nel 1989, grazie alle testimonianze di alcune sopravvissute in Corea del Sud, la vicenda è stata riaperta e le loro voci, supportate dai racconti di ex soldati e molte altre donne, hanno permesso di scoprire la verità sulle donne di conforto, fino ad allora erroneamente identificate come prostitute volontarie, che seguivano l’esercito.

I capitoli dedicati agli anni di cattività mettono in luce le sofferenze della giovane protagonista, ma – quasi inaspettatamente, vista la tendenza di molti libri “di guerra” a dedicare attenzione alle scene di violenza e sesso – sorvolano sui particolari. Traspaiono tuttavia il dolore e l’annichilimento delle donne prigioniere, anche attraverso la tendenza della protagonista a vivere una sorta di dissociazione tra la se stessa prigioniera, costretta a portare perfino un nome giapponese, e la “vera” Wang Di. 

Jing-Jing Lee

Jing-Jing Lee fotografata da Aline Bouma

La giovane Wang Di è già una donna distrutta: “come mi avevano insegnato i miei genitori, io non valevo niente. Avrei dovuto nascere maschio. Tutto quello che avevo fatto prima della mia cattura – aiutare in casa, lavorare al mercato – era servito solo a espiare la mia colpa. E adesso che ero lì, valevo anche di meno. Meno di niente”. E per gran parte della sua vita tenta di espiare quella che ritiene essere una colpa con il silenzio e la vergogna.

Al racconto del passato di Wang Di, si accompagna quello di un ragazzino che durante un’estate scopre un mistero legato alla sua famiglia e decide di risolverlo, scavando proprio nel passato che la generazione dei suoi nonni ha fatto di tutto per dimenticare. La figura del ragazzino (o della ragazzina) nelle vesti del personaggio che permette di scoprire misteri del passato è piuttosto usuale, ma in questo caso il giovane si fa vero e proprio “raccoglitore” delle storie perdute: con un registratore fissa per sempre i racconti del passato.

La parola, una volta fissata su nastro, e poi su carta, dà vita a una storia necessaria, seppur dolorosa.