Da Cervantes a Emily Dickinson, a Tolstoj, a Beckett, a Swift, a Virginia Woolf, a Céline, a Plotino, a Bulgakov, a Primo Levi, a Teresa D’Avila, a Jack London, ad Artaud, a Hitler… Su ilLibraio.it un capitolo da “L’adorazione e la lotta”, raccolta di saggi firmata da Antonio Moresco

“Negli ultimi vent’anni, accanto a vasti romanzi, romanzi brevi, racconti, opere di teatro e altri testi legati a esperienze di sconfinamento e cammino, mi è capitato di confrontarmi con scrittori, poeti e pensatori incontrati sulla mia strada che avevano lasciato un segno profondo dentro di me. Ne sono nati scritti che non hanno le caratteristiche di riflessioni pacificate e di degustazioni ma che sono parte della stessa spinta che anima i miei altri libri e che vanno a comporre con questi un’unica e indistinguibile manifestazione del mio stare dentro il territorio della letteratura”. Mondadori porta in libreria una variegata raccolta di saggi firmati da Antonio Moresco. Nelle oltre 400 pagine de L’adorazione e la lotta lo scrittore, classe ’47, compie un cammino animato da una visione spiazzante della letteratura e del mondo, che attraversa le opere di scrittori, poeti, filosofi, santi, capi politici: da Cervantes a Emily Dickinson, a Tolstoj, a Beckett, a Swift, a Virginia Woolf, a Céline, a Plotino, a Bulgakov, a Primo Levi, a Teresa D’Avila, a Jack London, ad Artaud, a Hitler…

L'adorazione e la lotta

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo il capitolo “Il signor Joyce e la signora Woolf”

Ho appena finito di leggere Diario di una scrittrice di Virginia Woolf. Mi è sembrato, per la sua sincerità e trasparenza, per la sua ispirazione costante, per la sua altezza e per il suo tono diretto e ardente, tra i più bei diari di uno scrittore del Novecento, più bello di quello di Musil e secondo solo a quello di Kafka. Sì, quelli di Kafka e della Woolf mi sembrano i più bei diari di scrittori del Novecento, come le lettere di Van Gogh mi sembrano, in un certo senso, il più bel diario dell’Ottocento, più bello ancora di quello pur straordinario di Tolstoj e degli epistolari indimenticabili di Leopardi e Flaubert, il più disarmato, il più incendiato, il più assoluto, il più trasparente, il più puro.

Riporto qui, dal diario della Woolf, i passi che si riferiscono al cozzo prodotto su di lei dall’uscita di Ulisse di Joyce. La prima nota è del 1920. Virginia Woolf ha trentotto anni: «Eliot, che è arrivato subito dopo un lungo periodo passato a scrivere (due mesi senza interruzione), mi ha distratta, mi ha gettato un’ombra addosso; e la mente impegnata a narrare ha bisogno di tutta la propria audacia e sicurezza. Lui non ha detto nulla, ma io riflettevo che quello che faccio io lo sta facendo forse meglio il signor Joyce». Due anni dopo: «Dovrei essere immersa nella lettura dell’Ulisse, preparare la mia arringa pro e contro. Ne ho lette 200 pagine finora – neppure un terzo – e mi ha divertita, stimolata, affascinata, interessata per i primi due o tre capitoli. Sino alla fine della scena del cimitero; e poi sono rimasta confusa, annoiata, irritata e delusa da questo liceale a disagio, che si gratta i foruncoli. E Tom [Eliot], il grande Tom, lo mette sullo stesso piano di Guerra e pace! Per me è un libro ignorante, plebeo; il libro di un operaio autodidatta, e sappiamo tutti quanto sono disperanti, quanto egocentrici, assillanti, rozzi, declamatori e in sommo grado nauseanti.

Se si può avere la carne cotta, perché mangiarla cruda? Ma credo che per gli anemici, com’è Tom, nel sangue vi sia una certa magnificenza. A me, che sono abbastanza normale, torna ben presto il desiderio dei classici. Magari più avanti rivedrò questo giudizio. Non comprometto il mio acume critico. Pianto solo un bastone in terra a pagina 200». Certo, per me che rispetto e amo questa scrittrice, il tono è insopportabilmente classista e snob, c’è dentro anche un problema di vanità ferita, di gelosia, di competizione, di invidia, c’è anche un’idiosincrasia più profonda e segreta che ha forse a che fare con il maschile e con il femminile e con il magnete della sessualità ecc. ecc… Ma questa perdita di controllo come rende bene l’impatto prodotto su una grande scrittrice dall’irruzione dell’opera distruttiva, programmata, volontaristica, teppistica e aliena di un suo contemporaneo che le arriva tra capo e collo così!

Una decina di giorni dopo: «Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso ovvio, ma in senso letterario. Uno scrittore di classe, voglio dire, rispetta troppo la scrittura per ammettere le trovate, le sorprese, le bravure. Mi ricorda in continuazione un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma talmente conscio di sé, talmente egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, desta pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia; e si spera che gli anni lo guariscano; ma poiché Joyce ne ha quaranta sembra poco probabile. Non l’ho letto con molta attenzione; e una sola volta; ed è molto oscuro, sicché non dubito di averne misconosciuto i pregi più di quanto sia lecito. Sento che miriadi di minuscole pallottole picchiettano e tamburellano il lettore; ma un colpo mortale in piena faccia non lo ricevi… come in Tolstoj, per esempio, ma è del tutto assurdo paragonarlo a Tolstoj».

Anche qui, che limite impressionante! Come si fa a esibire così il proprio angolo cieco! E poi non ha letto neppure – se non altro – Dedalus, oppure I morti? Come si fa a paragonare a un liceale che si gratta pubblicamente i foruncoli l’autore di uno dei più bei racconti che siano stati scritti nel Novecento? Ma anche che grandezza, che acume! Perché è difficile dire che in questo disperato fuoco di sbarramento che prende di petto al suo nascere la strada intrapresa dal filone teoricamente vincente della letteratura del Novecento con il suo programmatico modernismo, non ci sia anche qualcosa di vero, di ardito. E poi, e poi… bisogna essere davvero grandi per avere torto su tutto e nello stesso tempo ragione su tutto!

Passa un giorno: «Dopo che avevo scritto questo, L. [il marito] mi ha messo tra le mani un’intelligentissima recensione dell’Ulisse uscita sul Nation americano; che, per la prima volta, ne analizza il significato; e certo ne fa un’opera molto più rilevante di quanto la giudicassi io. Eppure penso che vi sia qualche merito, e non so quale verità duratura, nelle prime impressioni; e non rinnego la mia. Devo rileggere alcuni capitoli. Probabilmente la bellezza definitiva di uno scritto non è mai sentita dai contemporanei; ma essi dovrebbero, credo, essere turbati; e io non lo sono stata. Ma ancora una volta mi ero irrigidita di proposito; ancora una volta le lodi di Tom mi avevano stimolata troppo».

Il giorno dopo: «C’è stato un gran parlare dell’Ulisse. Tom ha detto: “È uno scrittore puramente letterario. Si fonda su Walter Pater con qualche tocco di Newman”. Io ho detto che era virile, un caprone; ma non mi aspettavo che Tom fosse d’accordo. Invece lo è stato; e ha detto che aveva lasciato fuori molte cose importanti. Il libro sarebbe stato una pietra miliare, perché aveva distrutto tutto il diciannovesimo secolo. Aveva lasciato lo stesso Joyce senza più nulla da scrivere in un altro libro. Mostrava la futilità di tutti gli stili inglesi. Lui trovava bellissima la scrittura di certe parti. Ma non c’era nessun “grande concetto”; non era questa l’intenzione di Joyce. Secondo lui Joyce aveva fatto, compiutamente, quel che intendeva fare. Ma non pensava che ci avesse offerto nuove intuizioni sulla natura umana, detto qualcosa di nuovo, come Tolstoj. Bloom non dice niente. In verità, ha detto, questo nuovo metodo di presentare la psicologia prova secondo me che non funziona. Non comunica quanto può comunicare, spesso, un casuale sguardo dal di fuori […]. Quindi siamo passati a S. Sitwell, che si limita a esplorare la propria sensibilità, uno dei peccati mortali, secondo Tom; a Dostoevskij, la rovina della letteratura inglese, e su questo eravamo concordi». Poi più niente, per una ventina d’anni, fino al 1941, l’ultimo della vita di Virginia Woolf: «La parsimonia potrebbe
essere la fine di questo diario. E anche la vergogna della mia prolissità, quando vedo questi venti quaderni radunati alla rinfusa nella mia stanza. Di che mi vergogno? Di me, che li leggo. Poi è morto Joyce: Joyce, più giovane di me di una quindicina di giorni. Ricordo la signorina Weaver, con i guanti di lana, che mi portava l’Ulisse dattiloscritto, al nostro tavolino da tè di Hogarth House. L’aveva mandata Roger, credo. Volevamo dedicare le nostre vite a stamparlo? Le pagine oscene apparivano incongrue; lei molto zitella, abbottonata. E quelle pagine, turbinanti di oscenità. Lo misi nel cassetto della scrivania intarsiata. Un giorno venne Katerine Mansfield e lo tirai fuori. Lei cominciò a leggere, canzonando; poi di colpo disse: “Ma c’è qualcosa di buono, qui: unascena che dovrebbe figurare, suppongo, nella storia della letteratura”. Lui era sempre in giro dalle nostre parti, ma non lo vidi mai. Poi ricordo Tom, nella stanza di Ottoline a Garsington, che diceva – allora era già uscito – come si può scrivere ancora, dopo avere compiuto il prodigio immenso di quest’ultimo capitolo? Era, per la prima volta a mia conoscenza, rapito, entusiasmato. Comprai il volume ricoperto di carta azzurra e lo lessi qui, d’estate, credo, con spasimi di stupefazione, di scoperta, e poi di nuovo con lunghi vuoti di tedio intenso. Questo risale a un mondo preistorico. E ora i signori stanno dando una rinfrescata alle loro opinioni e i libri prendono posto, suppongo, nel lungo corteo». Nient’altro. Un paio di mesi dopo la signora Woolf entra nell’acqua con le tasche piene di sassi e si annega.

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