“La ragazza tedesca”, romanzo d’esordio di Armando Lucas Correa, racconta la tragica storia del transatlantico St. Louis, che cercò di salvare centinaia di ebrei

Arriva in libreria La ragazza tedesca (Nord, traduzione di Giuseppe Maugeri), romanzo d’esordio del giornalista cubano Armando Lucas Correa, un libro ispirato a una pagina dell’Olocausto spesso dimenticata.

Durante la seconda guerra mondiale, moltissimi ebrei sono fuggiti alle persecuzioni naziste rifugiandosi negli Stati Uniti o in Sud America. Molti di loro sono stati accolti a braccia aperte nella loro nuova patria, dove hanno cominciato una nuova vita. Ma non tutti sono stati così fortunati, anzi: migliaia di persone sono stata rimandate in Europa, come è accaduto ai passeggeri della St. Louis.

la ragazza tedesca correa armando lucas copertina

Il transatlantico St. Louis salpa il 13 maggio del 1939 da Amburgo, con a bordo 937 profughi, in grandissima parte ebrei tedeschi, in fuga dalle persecuzioni naziste. All’arrivo a Cuba, il governo non concede ai passeggeri il permesso di sbarco. Solo 22 scendono a L’Avana. Dopo essere stata respinta anche dagli Stati Uniti e dal Canada, la St. Louis è costretta a tornare in Europa. Il 17 giugno 1939, la Gran Bretagna accoglie 288 passeggeri, mentre i restanti 619 finiscono in Francia, Belgio e Paesi Bassi. Di questi 619, solo 365 sopravvivranno alla guerra, mentre gli altri moriranno ad Auschwitz o in altri campi di sterminio.

Dalle strade cupe della Berlino di Hitler, ai balli sontuosi a bordo della St. Louis, dal sole di Cuba prima della rivoluzione, alla New York dei nostri giorni, l’autore, di origini cubane ma residente a New York, racconta le storie di due donne accomunate dal desiderio di trovare il proprio posto del mondo, lontane nel tempo, eppure legate dal filo invisibile del destino.

La storia della St. Louis continua tutt’oggi a commuovere, come dimostra l’account Twitter in cui sono state raccolte le foto dei passeggeri, ciascuno dei quali “racconta” che cosa gli sia successo dopo essere stato rimandato in patria. Per la maggior parte di loro, basta una frase: Sono morto ad Auschwitz.

Su ilLibraio.it un estratto, per gentile concessione dell’editore:

Berlino, 1939

Era sabato. Il giorno della partenza.

Indossavo un noioso abito blu scuro che la mamma avrebbe definito un po’ pesante per quel periodo dell’anno. Io e il papà la aspettavamo pazientemente in salotto. Non ero interessata a fare colpo una volta arrivati ad Amburgo, anche se in testa sentivo risuonare di continuo una delle sue massime preferite: «La prima impressione è quella che conta».

Non mi turbava neanche l’idea di lasciarmi alle spalle l’unica casa in cui avessi mai vissuto, cancellando di fatto dodici anni della mia vita in un solo colpo. A rattristarmi era il fatto che il mio solo amico mi avesse abbandonato e che non sapevo dove fosse scappato, né quali mondi esotici avrebbe scoperto senza di me. Avevo un’unica consolazione: sapeva di potermi trovare sull’isola dove avevamo sognato un giorno di crescere una famiglia. E dove lo avrei aspettato fino al giorno della mia morte.

L’unico aspetto positivo della sua scomparsa era che mi ero tolta dalla testa le capsule di cianuro. Per come stavano le cose, qualsiasi decisione avessero preso i miei genitori non avrei battuto ciglio. Visto che alla fine saremmo fuggiti, di sicuro non ne avremmo avuto bisogno. Fossi stata il papà, tuttavia, non le avrei mai lasciate a portata della mamma, considerato il fatto che quest’ultima alternava intere giornate trascorse a letto ad altre in preda a una strana euforia.

Ho interrogato di nuovo il papà sulla famiglia Martin. Doveva pur sapere qualcosa.

«Sono al sicuro. Va tutto bene», rispondeva.

Era una risposta che non poteva bastarmi, perché non volevo stare lontana da Leo.

Le sue frasi preferite adesso erano: «Non è successo niente», «Non ti preoccupare», «Va tutto bene».

Anche nelle situazioni più difficili, non smarriva mai l’autocontrollo. Sedeva sul sofà, lo sguardo fisso nel vuoto. Avevo il sospetto che fosse diventato indifferente a tutto. Ai piedi teneva l’inseparabile valigetta di pelle. Quando gli ho chiesto se voleva un po’ di tè prima di partire, era così sovrappensiero che non mi ha neanche risposto. Preferiva pensare che eravamo fortunati e si rifiutava di considerarsi una vittima.

Sette valigie pesantissime attendevano sulla soglia. Al suo arrivo, l’ex studente del papà, ora un membro del partito degli Orchi, ha cominciato a caricarle sull’auto che a fine giornata sarebbe diventata sua. Prima di uscire ha lanciato un’occhiata in salotto, progettando forse di mettere le mani su alcuni dei beni più preziosi appartenuti per generazioni alle famiglie Rosenthal e Strauss. E chi poteva garantire che, dopo averci lasciato al porto e aver fatto ritorno a Berlino, non avrebbe fatto irruzione nel nostro appartamento per portarsi via il vaso Sèvres della nonna, il servizio d’argento e la porcellana Meissen?

«I vicini sono di sotto», ha detto al papà. «Hanno formato due file davanti al palazzo. Non possiamo uscire dal retro?»

«Ce ne andiamo dalla porta principale e a testa alta», ha decretato la mamma, uscendo dalla sua stanza con un’aria raggiante. «Non siamo fuggiaschi. Gli stiamo lasciando il palazzo; possono farsene quello che vogliono.» Si lasciava dietro una scia di gelsomino e rose bulgare. Soltanto lei avrebbe potuto decidere di viaggiare in auto fino ad Amburgo per imbarcarsi su una nave indossando un abito lungo con lo strascico. Una veletta le copriva la parte superiore del viso, su cui sfoggiava un trucco impeccabile: sopracciglia arcuate fino alle tempie, guance di un bianco deciso e labbra lucide e scarlatte. Il complemento perfetto al suo abito Lucien Lelong bianco e nero, esaltato da una spilla di platino e diamanti in vita.

L’abito metteva in mostra la sua figura esile, limitandone l’ampiezza dei passi così che tutti potessero ammirare la splendida visione. Ecco che cosa intendeva con prima impressione!

«Andiamo?» ha detto, senza voltarsi indietro. Senza prendere congedo da tutto ciò che era stato suo. Senza un ultimo sguardo ai ritratti di famiglia. Senza nemmeno esaminare come ci fossimo vestiti io e il papà. Era del tutto ininfluente che approvasse il nostro abbigliamento: il suo splendore avrebbe eclissato ogni altra cosa.

È uscita per prima. L’ex studente ha chiuso la porta – ma ha fatto scattare la serratura? – per poi recuperare le ultime due valigie.

Il profumo della mamma ci ha preceduti in strada. Le arpie assiepate in attesa di ricoprirci d’insulti sono rimaste intossicate, affascinate dalla fragranza della Divina.

Forse hanno perfino chinato la testa, mentre salivamo sull’auto che presto non sarebbe più stata nostra. Quanto a me, preferivo pensare che avessero provato un po’ di vergogna per il loro comportamento, mostrando così almeno un frammento di umanità. Chissà se c’era anche Gretel, tra loro. Ma che importanza aveva? Frau Hofmeister sarebbe stata contenta. Da quel momento in poi avrebbe potuto usare l’ascensore senza che una bambina impura le rovinasse la giornata.

Abbiamo lasciato il quartiere con la velocità di quelle stelle cadenti che io e il papà cercavamo nelle notti d’estate nella nostra casa in riva al lago Wannsee. Ci siamo lasciati alle spalle le vie eleganti del Mitte. Mentre attraversavamo quello che un tempo era stato il più bel viale di Berlino, ho detto addio al ponte sulla Sprea su cui tante volte avevo scorrazzato insieme con Leo.

Seduta tra me e il papà, la mamma guardava dritto davanti a sé, osservando il traffico di quella città che un tempo era la più vivace d’Europa. Nessuno di noi aveva il coraggio di guardare gli altri o di aprire bocca. Nessuno di noi ha versato una lacrima. Non era ancora il momento.

Quando Berlino si è ridotta a un puntino in lontananza, con Amburgo a poco meno di trecento chilometri a nord-ovest, ho cominciato a tremare. Benché non fossi più in grado di tenere l’ansia sotto controllo, non volevo darlo a vedere. Dovevo comportarmi come una ragazzina viziata di undici anni cui non era mai mancato nulla. Poteva essere la mia liberazione. L’ultimo sfogo prima di salire sulla nave che ci avrebbe portati via da quell’inferno. Benché cercassi di trattenere le lacrime, alla fine sono scoppiata a piangere.

«Ce la caveremo, piccola mia», mi ha consolata la mamma. Sentivo il tessuto del suo abito contro la guancia. Non volevo macchiarglielo con le mie stupide lacrime. «Non ha senso piangere per quello che stiamo lasciando. Vedrai quanto è bella L’Avana.»

Avrei voluto dirle che non stavo piangendo per quello che mi avevano portato via, ma perché avevo perso il mio migliore amico. Ecco perché stavo tremando: non per un vecchio appartamento o una città che non significavano nulla per me.

«Non c’è bisogno di correre», ha detto poi all’ex studente, recuperando uno specchio dalla borsetta per accertarsi che il trucco non si fosse sbavato. «In realtà sarebbe meglio se arrivassimo all’orario stabilito. Voglio essere l’ultima a imbarcarsi.»

Ci siamo fermati in una stradina laterale, in attesa del momento perfetto per il suo ingresso trionfale. L’ex studente ha acceso la radio, offrendoci così l’occasione di sentire un’altra delle interminabili invettive di quei giorni: «Abbiamo consentito a quanti stanno avvelenando il nostro popolo, a quei rifiuti, quei ladri, quei vermi e delinquenti, di lasciare la Germania». Il discorso riguardava noi. «Nessun Paese è disposto ad accoglierli. Perché dovremmo accollarcene il peso? Abbiamo ripulito le nostre strade e continueremo a farlo finché anche l’angolo più remoto dell’impero non sarà libero da queste sanguisughe.»

«Credo che dovremmo andare al porto.» Era la prima volta che mio padre apriva bocca da quando avevamo lasciato Berlino. «Può bastare.» Ha fatto cenno all’Orco di andare e di spegnere quella dannata radio.

Non appena girato l’angolo, l’isola galleggiante che doveva salvarci ci è apparsa. Un’enorme, imponente massa di ferro bianca e nera, come il vestito della mamma, sorgeva dall’acqua fino a toccare il cielo. Un’intera città sul mare. Speravo che là saremmo stati al sicuro. Sarebbe stata la nostra prigione per le due settimane a seguire. Dopo, la libertà.

La bandiera degli Orchi sventolava a un’estremità della nave. Sotto, in caratteri bianchi, un nome che sarebbe rimasto per sempre con noi: St. Louis.

(continua in libreria…)

 

 

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