“E tu mi vorrai bene?”, il libro di Cathy Glass, racconta la toccante storia vera di una bambina trascurata per anni, che l’autrice ha preso in affido e poi adottato…

I libri dell’inglese Cathy Glass raccontano storie vere, commoventi e toccanti: sono infatti incentrati sulla sua esperienza nel campo dell’affido famigliare. “E tu mi vorrai bene?” (pubblicato in Italia da Tre60) racconta la storia di Lucy, una bambina trascurata per anni, che Cathy Glass ha preso in affido e poi adottato. Una testimonianza sorprendente di cosa può fare l’amore…

 

 Ed ecco un estratto dal romanzo, pubblicato per gentile concessione dell’editore
(Copyright © 2014 TEA s.r.l., Milano)

«Jill, avrò il tuo appoggio se chiedo di avere Lucy in affido permanente?» domandai, col cuore in gola per l’agitazione. «Con lei non ne ho ancora parlato, e nemmeno con Adrian o Paula. Prima volevo discuterne con te.»

Era il 5 settembre, il giorno dopo la riapertura delle scuole e, a parte Toscha, io e Jill eravamo sole in casa. Lei mi scrutò attentamente, e con profonda serietà.

Io continuai. «Capisco che Stevie voglia trovarle una famiglia affidataria con le stesse origini etniche. Ma ti sembra realistico? E quanto tempo ci vorrà? Lucy si considera inglese. Non ha alcun complesso dal punto di vista razziale, e io sto facendo di tutto per incoraggiare in lei un’identificazione positiva col suo doppio retroterra culturale. Ha avuto una vita così difficile, continuamente sradicata e sballottata da un posto all’altro. Con noi si è inserita. Io e i bambini le siamo affezionati, e so che lei ci ricambia. Ha chiesto più di una volta di restare, e tutti noi non desideriamo altro.» Avevo parlato con trasporto, le parole mi venivano dal cuore. Jill continuava a fissarmi.
«Allora, che ne pensi? Coraggio, Jill!»

«Le vuoi bene?» domandò, infine.

«Sì», risposi, senza esitare. «Per me è come una figlia, e per Adrian e Paula è una sorella. So che la pensano come me. Al momento capiscono che presto o tardi Lucy dovrà lasciarci, com’è accaduto con gli altri bambini in affido. È una cosa che le famiglie affidatarie devono accettare. Ma sarebbero entusiasti se lei potesse restare.»

Jill annuì appena, ancora pensosa, poi il suo volto si distese in un sorriso.
«D’accordo, avrai il mio appoggio. Sarà un piacere per me. Ho visto coi miei occhi quanto Lucy è felice e inserita con voi. Si è integrata alla perfezione, come un vero membro della famiglia.»

«Oh, grazie!» esclamai, portandomi le mani al petto. «Grazie infinite!» Mi alzai, la raggiunsi e la strinsi in un forte abbraccio. «Sei un angelo!»

Lei scoppiò a ridere. «Non c’è di che. Ora, la prima cosa da fare è parlarne con Stevie. In qualità di assistente sociale di Lucy, il suo parere è determinante.»

In preda all’entusiasmo, mi ero quasi dimenticata di Stevie. «Credi che sottoscriverà la mia richiesta?» domandai, subito angosciata.

«Sì, ne sono certa. Nessun assistente sociale vorrebbe mai sradicare un bambino, quand’è possibile evitarlo. E Stevie capirà che le probabilità di trovare il giusto mix etnico per Lucy sono molto remote. Se fossi in lei, ti ringrazierei in ginocchio di avere offerto alla bambina una casa definitiva. Le telefonerò appena torno in ufficio.»

Io spalancai un sorriso. «Quanto credi ci vorrà? Puoi spiegarmi la procedura?»

«Sicuro. Dunque, vediamo. L’ultima udienza è fissata per dicembre, ma la scadenza per la presentazione dei documenti al tribunale è il mese prossimo. Il fascicolo comprenderà una copia del piano di affido. Stevie dovrà rivederlo prima della presentazione, per specificare che Lucy sarà sotto la tua responsabilità fino all’identificazione di un affidatario a lungo termine. Dopo l’udienza, quando i servizi sociali avranno ottenuto un Mandato permanente, la tua domanda di tenere Lucy dovrà essere autorizzata dalla commissione per gli affidi definitivi. Serviranno altre scartoffie, purtroppo, e passerà altro tempo: la commissione si riunisce solo una volta al mese. Quindi, se la tua domanda non arriva entro la scadenza di gennaio, bisognerà aspettare febbraio. Tu verrai convocata per una valutazione, ma non parteciperai al dibattito.» Io trasalii
appena. «Non preoccuparti, andrà tutto bene. Io sarò al tuo fianco, e farò in modo che approvino la richiesta. A un calcolo approssimativo, direi che l’intera faccenda sarà risolta entro la fine di febbraio.»

«Magnifico!» gridai.

La mia euforia era incontenibile. Avrei voluto baciarla. Jill aveva preso penna e taccuino dalla borsa, e stava scrivendo qualcosa. Aspettai pazientemente che finisse.

«Ora devo andare», disse, alzandosi. «Voglio avviare subito il protocollo.
Telefonerò a Stevie e poi a te per confermare le tempistiche.» Sorrise. Era
felice quanto me. «Mi hai cambiato l’umore», concluse, mentre la accompagnavo alla porta.

«E tu il mio. Grazie ancora.» Senza riuscire a trattenermi, la stritolai in un altro abbraccio.

 

Passai il resto della mattinata e il primo pomeriggio al settimo cielo. Giravo per casa facendo i mestieri come se camminassi a mezz’aria. Sapevo che Adrian e Paula sarebbero stati felicissimi quando li avessi informati, e quanto a Lucy, be’, tra poco sarebbe stato il suo compleanno, e quale miglior regalo di un famiglia tutta sua? Mi sentivo la persona più fortunata al mondo, e recitai una piccola preghiera di ringraziamento. Molto tempo prima, un medico mi aveva detto che non sarei riuscita ad avere figli, e adesso ne avevo tre, senza contare i futuri bambini in affido. «Grazie!» dissi, ad alta voce.

Alle due, squillò il telefono e io corsi a rispondere, contando che fosse Jill con la conferma promessa. Era lei, ma appena aprì bocca capii che qualcosa non andava.

«Cathy, faresti meglio a sederti.» La voce era tesa e nervosa. «Ho parlato con Stevie, e purtroppo le notizie non sono buone.» Per un istante pensai che Stevie avesse trovato la famiglia che cercava per Lucy. Sarebbe stata una delusione, ma niente di paragonabile al colpo che mi aspettava.

«Stevie non intende sottoscrivere la tua domanda di affido definitivo», disse. «Non ti ritiene adatta a soddisfare le esigenze della bambina. Ho cercato di convincerla, ma è inamovibile. Non presenterà la tua candidatura.»

Provai un senso di nausea. «Quali esigenze?» domandai, in tono piuttosto secco.

«Quelle etniche», rispose Jill, lapidaria.

Provai un brivido di paura. «Allora dimmi cosa devo fare. Sono disposta a tutto.»

«Non si tratta di ciò che fai o non fai. So che ti sei impegnata a consolidare l’identità culturale di Lucy, ma non puoi diventare un’altra.»

«Intendi dire che non sono tailandese, o mezza tailandese?» ribattei, alzando la voce.

«Esatto.
E non lo è nessuno dei tuoi parenti o dei tuoi amici.»

Persi le staffe. «Stai citando le parole di Stevie, vero? Questo è razzismo bello e buono, oltre che un cumulo di sciocchezze. Viviamo in una società multiculturale, Jill. Io ho amici di molte nazionalità diverse. E Lucy si è inserita, non è una mosca bianca. Lo hai detto tu stessa che ormai è un membro a tutti gli effetti della mia famiglia. E Stevie vorrebbe escluderci soltanto perché non abbiamo le sue stesse origini? Quella si preoccupa molto più dei propri complessi razziali che del bene di Lucy. È stato un suo chiodo fisso fin dall’inizio. Noi vogliamo bene alla bambina, e possiamo offrirle una famiglia affettuosa e permanente, ma lei se ne infischia. È pronta a sacrificare tutto questo, e solo perché considera più importante la razza!» Mi zittii. Un nodo mi stringeva la gola, e avevo le lacrime agli occhi. Probabilmente avevo già detto troppo, ma non avevo niente da perdere.

All’altro capo della comunicazione, Jill taceva. Infine disse, con dolcezza: «Mi dispiace tanto, Cathy. Dico sul serio. Non avrei dovuto incoraggiarti prima di aver consultato Stevie, ma ero davvero convinta che sarebbe stata entusiasta della tua offerta, e che l’avrebbe sostenuta».

«Non è colpa tua», sospirai. «Se non c’è altro, adesso dovrei andare.»

«No, nient’altro.»

Senza salutarla, riagganciai il telefono, e scoppiai a piangere.

Più tardi, rientrati da scuola e trovandomi stranamente silenziosa, i bambini mi chiesero un paio di volte se qualcosa mi preoccupava. Io risposi che era tutto a posto, e cercai di fare buon viso, per il loro bene, ma non fu facile. Durante la nostra settimana di vacanza, e al nostro ritorno, avevo preparato con cura il discorso da fare a Jill, e alla sua risposta positiva mi ero infervorata. Per tutto quel tempo ero stata convinta che Lucy sarebbe rimasta con noi, e la delusione cocentissima del rifiuto di Stevie mi aveva atterrata. Per carattere, sono una persona molto positiva e ottimista; vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Se mi capita un contrattempo, cerco di pensare che poteva andare peggio, ma a quel punto le mie uniche consolazioni erano di non aver detto niente ai bambini, risparmiando la stessa delusione anche a loro, e il pensiero che Lucy sarebbe comunque rimasta finché Stevie non avesse trovato la famiglia che cercava, una ricerca che poteva durare ancora mesi.

Ciononostante, la mia rabbia non accennava a placarsi. Pensavo davvero che Stevie stesse commettendo un errore. Sapevo che il «politicamente corretto» regnava sovrano in certi settori dei servizi sociali, a volte a discapito di altri fattori altrettanto importanti, e contro ogni buon senso. Io mi ero prodigata a incoraggiare in Lucy la consapevolezza del suo patrimonio culturale, e se mai l’avessi vista in difficoltà, o lei stessa mi avesse detto di non sentirsi a suo agio in casa mia, avrei senz’altro concordato con Stevie, e sperato che trovasse presto la famiglia giusta. Ma le cose non stavano affatto così. Al contrario, Lucy si era inserita con noi, e voleva restare.

Non sono tipo da arrendermi facilmente, e quella sera, prima di coricarmi, la mia delusione e la mia rabbia si tramutarono in risoluzione. Decisi che l’indomani mattina, appena rientrata dalla scuola di Paula, avrei ritelefonato a Jill. E con quel pensiero in mente, ed emotivamente spossata, mi addormentai.

«Scusami di avere riagganciato in quel modo, ieri», esordii. «Ero sconvolta.»

«È comprensibile», rispose Jill. «Se ti consola, credo anch’io che Stevie si sbagli, ma non possiamo farci niente.»

«Appunto di questo volevo parlarti. Ho davvero le mani legate? Non potrei presentare un ricorso al suo superiore?»

Jill restò in silenzio. Era evidente che stava scegliendo attentamente le parole. Infine disse: «Ieri, subito dopo la telefonata con Stevie, ho chiesto la stessa cosa al mio direttore. Pensiamo entrambi che presentare un ricorso al suo superiore genererebbe molti malumori, e non servirebbe a niente. Lui si schiererebbe senz’altro con lei, e rischiamo che ti tolgano Lucy persino prima del previsto.»

«Come, prima del previsto?» domandai, sentendomi cadere le braccia. «La famiglia che cercano non l’hanno ancora trovata, giusto?»

«Infatti, ma il dipartimento potrebbe ritenere che le origini etniche di Lucy siano diventate un problema, e decidere di trasferirla in affido provvisorio a una famiglia asiatica. I servizi sociali sono molto sensibili sull’argomento.»

«A me lo dici!» sbottai. «Questa storia del politicamente corretto ha superato ogni limite! Qui si tratta di discriminazione vera e propria! E l’unica persona afarne un problema è Stevie. Non c’è da stupirsi che i servizi sociali godano di una pessima reputazione!» Ero furibonda, e non riuscii a tacere ciò che pensavo.

Jill mi lasciò un momento per sbollire, poi disse, pacata: «Cathy, ti sto solo riferendo il parere mio e del mio superiore. Non ci sentiamo di raccomandare una protesta formale. Ho cercato di parlare con Stevie, e so che non cambierà idea. E in qualità di assistente sociale di Lucy, la decisione spetta a lei. Potrebbero toglierti la bambina senza preavviso, e io non voglio vederti ferita più di quanto tu sia già».

«Okay, ho capito», replicai, secca. «Grazie tante.» E per la seconda volta in due giorni, riagganciai senza salutare.

Mi allontanai dal telefono tremando di rabbia, ma sapevo di non avere alternative realistiche. Jill aveva ragione: la decisione spettava a Stevie, e contestarla avrebbe soltanto peggiorato le cose. Non mi restava che ingoiare la delusione e concentrarmi sul compleanno di Lucy, che cadeva la settimana successiva. Lei aveva chiesto in regalo una bicicletta, e sabato l’avrei accompagnata a sceglierla, anche se in anticipo. Quella sera, parlando della festa, suggerii che invitasse qualche amico, e lei rispose: «Non ho compagni di scuola con cui vorrei festeggiare.

Preferisco passare il compleanno in famiglia. Potremmo invitare i nonni, e uscire tutti insieme? È la cosa che desidero di più». Quella frase mi fece salire le lacrime agli occhi, per motivi di cui Lucy era ignara, e che non potevo confidarle.

 

Per festeggiare il suo compleanno, Lucy chiese di andare al bowling in un nuovo centro ricreativo appena aperto. Ne aveva sentito parlare dai compagni di classe, ma noi non ci eravamo mai stati. Quando telefonai ai miei genitori e dissi a mia madre che Lucy li invitava alla sua festa, lei ne fu commossa quanto me.

«È una bellissima dimostrazione d’affetto», disse. «Lo sai che ci chiama “nonno” e “nonna”? E a volte l’ho sentita chiamarti “mamma”. Le viene spontaneo, ma poi si corregge e dice “Cathy”.»

«Lo so. È dura. Gli affidatari dovrebbero scoraggiare i piccoli in affido dal chiamarli “mamma” e “papà”. I servizi sociali ritengono che sia disorientante per i bambini, e una messa in discussione dei genitori biologici.»

Mia madre sbuffò, spazientita. «Se Lucy si sente di chiamarti “mamma”, non capisco quale sia il problema. È solo che desidera una famiglia sua, tesoro, tutto qui.»

Ancora una volta, mi si strinse il cuore al pensiero di non potergliela offrire io stessa.

«Allora ci vediamo domenica, alle dodici», conclusi, confermando gli accordi. «Dopo il bowling, torniamo qui per una merenda. Ho in programma una torta di compleanno molto speciale. A Lucy piacerà da matti.»

«Vuoi che prepari i cupcake?»

«Oh sì, grazie! Sarebbe magnifico. E un’altra cosa, mamma: se Lucy vuole chiamarvi “nonni”, io non ho niente in contrario. Ma il fatto è che devo essere prudente, perché presto avrà una famiglia sua, e una nuova “mamma”.»

«Lo capisco, tesoro.»

Io, però, non lo capivo affatto.

Sia il giorno del compleanno di Lucy, il mercoledì successivo, sia la gita di domenica andarono alla grande. Poiché il primo era un giorno di scuola, io svegliai tutti un po’ prima del solito e, ancora in pigiama, ci radunammo intorno al letto di Lucy mentre lei apriva i regali e i biglietti d’auguri. I miei genitori le avrebbero portato i propri domenica, e dato che Bonnie non aveva mandato niente, c’erano soltanto i nostri pacchetti, più un biglietto da parte di Jill. Oltre alla bicicletta che si era scelta lei stessa, c’erano una confezione di cioccolatini da parte mia, due libri da parte di Adrian, qualche giocattolo da parte di Paula e un soprammobile di porcellana da parte di Toscha. Credo che il soprammobile le fosse piaciuto più di tutto il resto. Lucy non commentò l’assenza
di un regalo di sua madre; evidentemente l’aveva prevista. Una volta vestita, ebbe il tempo per un rapido collaudo della bicicletta in giardino, mentre io preparavo la colazione, e dopo mangiato andò a scuola.

Quel pomeriggio, sola in casa, apparecchiai con una tovaglia decorata e tovaglioli in tinta, e preparai i cibi richiesti da Lucy. In casa nostra, era tradizione che il festeggiato scegliesse cosa mangiare a cena, e Lucy aveva chiesto pollo al forno con patatine. Avevo anche comprato il gelato e una piccola torta glassata. La vera torta di compleanno era riservata per la domenica pomeriggio, dopo il bowling.

Quando tornò a casa era emozionatissima, e si dimostrò entusiasta alla vista della tavola apparecchiata. Mangiò anche una porzione ragionevole. Ma credo che a farle soprattutto piacere fossero tutte le attenzioni da «festeggiata», e il fatto di sentirsi speciale. Dopo cena le lasciai scegliere un paio di giochi da fare tutti insieme, anche se non troppi, perché l’indomani bisognava andare a scuola.

Mentre le rimboccavo le coperte e le davo il bacio della buonanotte, mi disse: «Grazie del bellissimo compleanno, Cathy. Mi hai fatta sentire molto speciale».

«Lo sei, tesoro», risposi, stringendola in un abbraccio e stampandole un altro bacio. «Molto, molto speciale. Non dimenticarlo mai.»

Lei ricambiò il bacio, e di colpo disse: «Vi voglio così bene! So di non poter restare per sempre, ma vi amo lo stesso. E tu mi vorrai bene, finché resto qui?».

«Oh, Lucy, tesoro, ma certo! Te ne voglio già adesso. Tutti noi ti vogliamo bene.»

«Sono contenta», disse lei, con un sorriso sereno. «È stato il compleanno più bello della mia vita.» Poi si rivolse a Mr. Bunny. «Visto? Te l’avevo detto che ci vogliono bene, e avevo ragione!»

Domenica, all’arrivo dei miei genitori, Lucy li abbracciò forte e li baciò. «Sono proprio felice che abbiate potuto venire alla mia festa», dichiarò.

«E noi siamo felici di essere qui», rispose mio padre.

«Grazie di averci invitati», aggiunse mia madre.

Andammo in salotto, i miei genitori consegnarono a Lucy il suo regalo, e tutti restammo a guardarla mentre lo apriva. Qualche tempo prima, aveva detto a mia madre che da grande voleva diventare una famosa estetista e truccatrice delle star, e restò incantata quando, aprendo la confezione, scoprì una custodia rossa e luccicante con tutto il necessario per un salone di bellezza in miniatura. Era una delizia, con schiere di flaconcini di cosmetici e smalti colorati, uno specchio, unghie finte, extension, un phon a batteria, barattolini di creme struccanti e tonificanti, e profumo: il kit completo di una truccatrice in erba. Lucy ne fu entusiasta. Probabilmente avrebbe cambiato idea sulle proprie aspirazioni per
il futuro – è tipico delle bambine di una certa età sognare di diventare
estetista – ma era felice, ed era questa la cosa importante. Lesse il biglietto d’auguri dei miei genitori, con le loro frasi affettuose, e poi lo sistemò sulla mensola, accanto al nostro e a quello di Jill. Tre biglietti d’auguri; non molti, se si pensa a quanti ne ricevono altri bambini, ma per Lucy era diverso. Prima di venire presa in carico dai servizi sociali, i suoi compleanni erano passati inosservati, e lei non aveva ricevuto proprio niente. Al bowling, vinse lei – facemmo tutti l’impossibile affinché accadesse – e, al ritorno a casa, giocò con Paula, mio padre e Adrian mentre io e mia madre preparavamo la merenda. Dopo mangiato tornammo in salotto, e Lucy ci usò da cavie per esercitare le sue competenze di truccatrice. Fu uno spasso, e la serata volò,
anche se dubito che le star avrebbero approvato i risultati. Paula ostentava
uno smalto diverso per ogni unghia, un rossetto rosso ciliegia e un ombretto blu. Io avevo il viso coperto dalla maschera, e i bigodini in testa. Mia madre se l’era cavata con poco, un massaggio ai piedi con olio di aromaterapia. Adrian indossava ciglia finte e un nastro giallo tra i capelli, e Toscha un altro, col nodo più morbido, sulla coda. Ma il più buffo in assoluto era mio padre, rimasto pazientemente seduto mentre Lucy gli impiastricciava la faccia col rossetto rosa e un ombretto argentato, gli incollava le unghie finte e coronava il tutto con extension bionde. Era ridicolissimo, e io scattai una valanga di foto.

Dopo la merenda, ciascuno di noi aveva mangiato un cupcake di mia madre. A quel punto, avuto il tempo di digerire, era il momento di svelare a Lucy la sua torta a sorpresa, che avevo preparato io stessa. Andai in cucina, dove l’avevo nascosta, accesi le candeline e poi la portai in salotto, intonando con gli altri un coro di
«Tanti auguri a te». La gioia sul volto di Lucy era indescrivibile, e
chinandomi a sistemare la torta sul tavolino le vidi le lacrime agli occhi. La torta era a forma di castello delle favole, con quattro torri e la glassa in
varie sfumature di rosa.

«Wow!» esclamarono Lucy e Paula, all’unisono.

«Fantastica», concordarono i miei genitori.

«Fico», aggiunse Adrian.

Lucy spense le candeline in un colpo solo, e noi battemmo le mani, con tre giri di «hip hip urrà!». Poi la aiutai a tagliare la torta, e lei ne servì una fetta a ciascuno. Il sapore era all’altezza dell’aspetto, e facemmo tutti il bis, un evento senza precedenti, nel caso di Lucy: non aveva mai chiesto una doppia porzione di niente.

«È la festa di compleanno più bella della mia vita!» esclamò, rivolta a tutti noi.

Noi sorridemmo, e io mi sforzai di scacciare dalla mente il pensiero che non ne avrebbe festeggiati altri con noi. Chissà dove sarebbe stata, il settembre successivo

 (continua in libreria…)

Fotografia header: "E tu mi vorrai bene?", il libro di Cathy Glass

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