Incontro con Karl Ove Knausgård autore di La mia lotta (1) ISBN:9788862201650

Dalla Norvegia con molto coraggio. 42 anni, fisico e successo in patria simili a quelli di una rockstar, eppure una sensibilità e un riserbo ai limiti dell’introversia. Chioma bionda e sguardo vitreo gli sono valsi il successo mediatico, ma quello che veramente ha conquistato i 200.000 lettori norvegesi di Karl Ove Knausgård è la sua opera: un’autofiction, alchemica miscela di vita e narrazione, in sei volumi. La mia lotta (1) esce ora in Italia e racconta la storia di un uomo, che decide di mettersi a nudo, di dire tutta la verità, nient’altro che la verità sul difficile rapporto col padre, sulla morte e sull’amore, senza compiacimenti e con ipnotica onestà e maniacale precisione. L’hanno chiamato il Proust norvegese, lui si schermisce, ma accetta di raccontarci genesi e movente della sua impresa.

D. Com’è nata l’idea di La mia lotta?

R. Nel 2004 avevo terminato il mio ultimo libro. Per tre anni sono andato avanti a scrivere senza troppa partecipazione. Poi è venuto a galla qualcosa di piccolo, che mi riguardava. Sapevo di voler scrivere di mio padre, della sua morte e l’unico modo per farlo era tornare a certi luoghi, era tornare a parlare di certe persone realmente esistite. Così ho deciso di affrontare il tema di petto e ho trovato l’energia per scrivere La mia lotta.

D. Qual è a suo giudizio la principale ragione che ha decretato lo straordinario successo de La mia lotta presso il pubblico dei lettori?

R. È molto difficile da spiegare, si è trattato di un successo per me, davvero, inaspettato. L’editore aveva deciso di stampare inizialmente solo 10.000 copie. Credo che il successo sia dovuto principalmente al fatto che il lettore si riconosce nella vita quotidiana di cui scrivo.

D. Ci vuole spiegare il titolo?

R. Il titolo, che ironicamente fa riferimento al “Mein Kampf” di Hitler, allude alla lotta a cui ci sottopone la vita ogni giorno. La lotta principale di cui si parla nel mio libro è quella contro l’alcolismo di mio padre, contro la depressione e la fragilità di mia nonna. Più in generale credo che il principale nemico contro cui combattere sia il dover mostrare la vita, la nostra, quella delle nostre famiglie, non per quello che è realmente, ma per quello che dovrebbe essere.

D. Quali sono i temi portanti?

R. Credo che i temi principali del mio romanzo siano prima di tutto il rapporto tra padre e figlio, la morte e la nullità della vita.

D. Come descriverebbe suo padre e il rapporto con lui?

R. Mio padre era una persona molto autoritaria, dura e instabile nei miei confronti. Un uomo violento e frustrato, che sembrava essere spaesato nel mondo. Quando lasciò mia madre e se ne andò di casa aveva quarant’anni, la mia età, iniziò a diventare un alcolizzato e poi morì. Il mio rapporto con lui è cambiato molto negli anni, non è mai stata una relazione statica. Ora che anch’io sono diventato padre mi sembra di riuscire meglio a guardarlo negli occhi, a identificarmi, talvolta, con lui. Era un uomo strano, che volevo esplorare. Ma esplorare le persone è molto difficile, credo quasi impossibile.

D. Com’è cambiata la sua vita da quando è diventato padre?

R. Diventare padre è stata per me un’esperienza scioccante alla quale mi sono gradualmente abituato. Inizialmente avevo voglia di scrivere questo libro e guardavo ai figli come a un ostacolo per il mio progetto. Ora sto crescendo nell’essere padre, mi prendo cura di loro, mi preoccupo per loro. Ma come spesso accade alle persone che hanno appena avuto figli so anche che non devo rinunciare a prendermi cura di me stesso, non devo rinunciare agli obblighi che ho verso me stesso.

D. Che cosa ha capito del mistero della morte, un tema decisivo del suo romanzo?

R. La morte è sia un fenomeno sociale, sia, in quanto perdita, un’esperienza personale. Sarebbe stato troppo difficile per me parlare della morte come di un fenomeno sociale, così mi sono concentrato sulla morte come fatto intimo. Attraverso il realismo letterario ho cercato di esplorare i miei sentimenti davanti alla scomparsa di mio padre. Ciò di cui scrivo è la morte del suo corpo, perché mio padre sento che è ancora qui. Non so se anche in Italia valga lo stesso, ma da noi, in Scandinavia si parla della morte solo in astratto e c’è una paura quasi atavica che avvolge l’argomento. Anche questo è uno dei motivi per i quali ne ho voluto trattare nel mio libro.

Intervista a cura di Giulia Tonelli

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