“Quando penso a cosa rappresenta, per me, la letteratura fantastica, il formicolare indeciso di ipotesi che si affacciano alla vertigine di mondi impossibili, penso ancora oggi al breve atterrito momento di sospensione che precedette le doverose spiegazioni” – Su ilLibraio.it la riflessione di Ilaria Gaspari sulle meraviglie del fantastico, passando da Poe a Hoffmann, fino ad arrivare a Stephen King…

Quando avevo tredici o quattordici anni, mi spedirono in vacanza studio a imparare il francese. Il collegio era grande e molto bello, sulle montagne svizzere, fra pascoli verdissimi e mucche ben pasciute; c’erano stanzone enormi tutte a vetrate, come serre, dove si giocava a biliardino, lunghi balconi e corridoi ampi su cui si aprivano le porte delle camere. In ogni stanza due letti, ma le porte di comunicazione fra una cameretta e l’altra non erano state murate e così la sera, dopo il coprifuoco che tutti aggiravano, era ancora più facile ritrovarsi insieme, a sgranocchiare schifezze introdotte di contrabbando, bere l’alcol adulterato da sciroppi alla frutta che veniva rifilato agli adolescenti dei primi anni Duemila – non sarò solo io a ricordarmi, con tenerezza e un po’ di ribrezzo, del Bacardi Breezer? – e a chiacchierare, perché non è che ci fosse poi molto da fare. Uscire era fuori discussione, intorno c’erano solo grandi prati bui sotto la luna. Qualcuno mormorava che il collegio era un vecchio sanatorio, e pur non sapendo esattamente che cosa mai fosse un sanatorio, la parola suonava stranamente magnetica proprio perché aveva un’aria così lugubre. Mi piaceva lasciarmi impressionare da fantasticherie che nemmeno io sapevo dove andassero a parare.

Una sera, imitando chissà quale film, nel buio di una delle stanze in cui eravamo stipati in troppi, qualcuno propose di giocare a fare una seduta spiritica e tutti aderimmo entusiasti. E quando furono pronunciate, in una lingua che probabilmente era esperanto, le parole fatidiche, ‘Se ci sei batti un colpo’, io sentendomi estremamente spiritosa, nella camera scura in cui tutti trattenevano il fiato, con il pugno chiuso feci appena appena suonare il legno della testiera del letto. Era notte fonda, stavamo in un sanatorio pur senza sapere cosa fosse e forse avevamo contrabbandato troppi Bacardi Breezer per essere immuni al rischio del picco glicemico: a quel rintocco lieve che, senza l’ardire di esagerare, avevo impresso al legno del letto, pensando che forse non l’avrebbe sentito nessuno, si scatenò un parapiglia. Urla improvvise, e tutti fummo terrorizzati di colpo, compresa me, che sapevo benissimo che era solo colpa mia. Fino a quando qualcuno all’improvviso riaccese le luci.

Quando penso a cosa rappresenta, per me, la letteratura fantastica, il formicolare indeciso di ipotesi che si affacciano alla vertigine di mondi impossibili, penso ancora oggi al breve atterrito momento di sospensione che precedette le doverose spiegazioni (e il biasimo che mi presi poi, quando tutti ormai minimizzavano il loro spavento). Penso a quell’attimo delizioso in cui nemmeno io, che pure avevo provocato quella strana reazione, sapevo più a cosa credere, al minuto in cui ogni fantasticheria appena abbozzata sembrava stranamente viva. Non c’era niente di definito da temere, niente di cui si potesse davvero aver paura, solo un urlo e un sanatorio, e chissà poi cos’era. Un attimo dopo era tutto finito, e tutti mi davano della scema. Ma in quel momento, in quel preciso momento l’incantesimo – della mia stupidità, della suggestione collettiva – ci aveva tenuti sospesi nell’incertezza che forse – forse – quello che ci rifiutiamo ostinatamente di credere, quello che c’è di serio e di spaventoso oltre l’orlo del gioco, non fosse poi così lontano; ma che al confine con il nostro mondo di adolescenti fortunati, in vacanza-studio in un posto un po’ monotono, con i pacchetti di patatine, le dita unte e gli effluvi di bibite che ci illudevano di inebriarci pur non essendo molto diverse da succhi di frutta effervescenti, molto vicino a quella banalità rassicurante e qualche volta struggente ci fosse qualcos’altro; un mondo nemmeno intravisto, solo sospettato per un attimo. Con la luce accesa, era fin troppo facile poi rinnegarlo, tornare in noi, nasconderci il brivido delizioso di quella strana paura senza nome.

Eppure, nonostante gli epiteti ingiuriosi che mi piovvero addosso quella sera non appena ci fu abbastanza silenzio perché tutti mi sentissero dire che ero stata io, non ho dimenticato la pelle d’oca che avevo avuto anch’io quando tutti gridavano, quando avevo scordato per un istante che c’era una spiegazione razionale per quel che succedeva – quando ero stata dentro l’incantesimo. Era stato bello, quel breve momento di esaltazione, e volevo a tutti i costi ritrovarlo. Dovevo riprovare quel formicolio, così indefinito, eccitante, che nasce nello sfregarsi di due mondi, come pietre focaie. Volevo vedere il mondo solito, il mondo di tutti i giorni, quello familiare, rassicurante, noioso addirittura, che al contatto anche lievissimo con quell’altro – con il mondo di cui si esita a pronunciare il nome, il mondo dei sogni che ci si dimentica al risveglio perché ricordarli è spaventoso: nientedimeno, perché se non fa paura l’incantesimo non funziona – si incendia immediatamente, e riverbera una luce nuova, in cui niente di quel che sembrava familiare, rassicurante, solito, sarà mai più noioso. E l’ho ritrovato, quel brivido, l’ho ritrovato eccome. Nella Caduta della casa Usher, che scoprii quell’estate, assaporando riga per riga l’allargarsi silenzioso della crepa nel muro di una casa insieme reale e irreale; l’ho ritrovato nei sorrisi enigmatici delle morti viventi di Poe, e qualche anno dopo negli occhi inespressivi e fissi di Coppelia, nell’amore ossessivo che quegli occhi ispirano, nel terrore cieco che prende il protagonista dell’Uomo della sabbia solo a ripensare a una favola che gli veniva raccontata da bambino, una favola nera che stravolge ogni zuccherosa fantasia infantile in sgomento, e soprattutto, in una lunga titubanza sull’orlo della follia. Quando poi, qualche anno dopo, ho scoperto Stephen King, è stata una rivelazione: romanzi lunghi, a volte lunghissimi, che riuscivano ad abitare, dalla prima all’ultima pagina, quell’esitazione deliziosa che precede il terrore. Ho iniziato a centellinarli, a leggerne uno per premio ogni volta che voglio concedermi di tornare, di nuovo, a sentire quel formicolio. Come un attimo prima che si riaccenda la luce.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Nei prossimi mesi l’autrice terrà un corso online per la Scuola Holden dal titolo “Storie ai confini della realtà”.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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