La “scoperta stupefacente” del buddhista Nagarjuna e una galleria di illustri filosofi (purtroppo) poco conosciuti… – L’approfondimento

Con oltre mezzo milione di copie vendute, il fisico Carlo Rovelli rappresenta uno degli eventi editoriali più clamorosi degli ultimi tre anni. Chapeau. Nel 2017 il suo L’ordine del tempo (in libreria da maggio per Adelphi) è stato uno dei libri di saggistica più venduti. Intanto le Sette brevi lezioni di fisica continuano a guadagnare lettori su lettori. Solo quest’anno, dunque, tra i primi dieci libri più venduti di saggistica due sono di un fisico italiano stimato, studiato e tradotto in tutto il mondo.

Oggi Rovelli è anche apprezzato opinionista. In particolare, su La Lettura-Corriere della Sera pubblica lunghi articoli interessanti e appassionati che uniscono al talento della divulgazione una sensibilità rara, aperta alla cultura generale e in fondo anche un po’ allergica a ogni specialismo troppo bacchettone. Perché sì, si può essere rigorosi senza essere bacchettoni. Uno degli ultimi s’intitola “Lezioni di fisica buddhista: le cose sono solo relazioni” (La Lettura, 10 dicembre 2017) ed è dedicato a un filosofo indiano di nome Nagarjuna, considerato un classico della filosofia buddhista. “Il pensiero di Nagarjuna è centrato sull’idea che nulla abbia esistenza in sé. Tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro… le cose esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro.”

Stiamo parlando di “cose ultime”, siamo insomma nel territorio della metafisica. La filosofia di Nagarjuna offrirebbe “pinze utili per fare ordine in scoperte moderne… uno strumento attraverso cui si può pensare l’interdipendenza senza essenze autonome”. Uno strumento utile a pensare la meccanica quantistica, nella quale gli oggetti sembrano esistere solo in relazione ad altri oggetti. L’ultima frontiera della fisica può essere dunque bene incorniciata, secondo Rovelli, in un pensiero metafisico che risale a ben diciotto secoli fa. Quello di Nagarjuna. Il pezzo appassionato di Rovelli mi ha fatto riprendere in mano un bellissimo fumetto. In particolare una tavola di questo fumetto. La scena delle tre foglie sull’albero. Eccola:

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Il tizio col cappello è Bertrand Russell. Il ragazzotto infreddolito dietro di lui è un Ludwig Wittgenstein reduce dalla prigionia a Cassino dopo la Prima guerra mondiale, dove ha finito di scrivere il suo libro più importante, il Tractatus logico-philosophicus. L’opera da cui è tratta la tavola s’intitola Logicomix, ed è un capolavoro, tradotto in Italia da Guanda. Il tema di cui discutono animatamente maestro e allievo (Russell e Wittgenstein, con cui era difficile discutere non animatamente) è l’esistenza di fatti empirici oggettivi. Per Russell è innegabile. Esistono infatti almeno tre cose nell’universo, dice…

Non c’è modo più immediato e diretto di questa tavola per capire attraverso un’immagine semplicissima l’inizio del Tractatus, e anche probabilmente le conseguenze scettiche della filosofia di Wittgenstein in generale, sia il cosiddetto “primo” che il “secondo Wittgenstein”. Rovelli scrive che in Nagarjuna “sembra risuonare il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e recente”. E richiama lo scetticismo radicale di Hume. Forse c’è stato qualcosa di perfino più radicale di Hume. Alcuni filosofi contemporanei non troppo conosciuti in Italia (Robert Fogelin prima di tutti, con un libro definito dal filosofo John Searle “la migliore introduzione al pensiero di Wittgenstein che io abbia mai letto”, mai tradotto in italiano) hanno riletto il pensiero di Wittgenstein come una riproposta di fatto dello scetticismo classico, ben più radicale di quello di Hume: quello di Pirrone. Scetticismo poco studiato e molto profondo. Figura singolare Pirrone. Filosofia tuttora parecchio illuminante il pirronismo.

Tornando a Nagarjuna, Rovelli e al tema delle relazioni: le prime due proposizioni del Tractatus – pubblicato 17 secoli dopo Nagarjuna, diviso in 7 proposizioni principali ciascuna delle quali (tranne l’ultima) sviluppata a sua volta in proposizioni minori connotate da decimali che ne designano la rilevanza (1; 1.1; 1.11; 1.12 eccetera), secondo una trama non troppo lontana dall’incedere criptico e sapienziale di Nagarjuna – sono:

1 Il mondo è tutto ciò che accade

1.1 Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose

Il mondo è la totalità dei fatti non delle cose. Le cose insomma da sole sono vuote, direbbe Nagarjuna. I fatti sono relazioni tra cose (il computer sta alla destra della lampada, la scrivania sta al centro della stanza) oppure relazioni tra cose e proprietà (la scrivania è bianca, la sedia è comoda, il caffè è dolce, il cielo è azzurro). Nulla posso dire del mondo o dell’universo oltre questo complesso di relazioni. Si apre qui il tema relativo a cosa leghi un oggetto, una cosa particolare, alla sua proprietà, ed è un tema bellissimo, stimolante e infinito, dibattuto dalla notte dei tempi. Ma questa è un’altra storia.

Restando a Nagarjuna e all’articolo di Rovelli, la metafisica delle relazioni fa capolino nelle argomentazioni di un filosofo che solo citarlo farebbe salire un brivido lungo la schiena di qualsiasi fisico di professione, perché è un idealista, e pure assoluto. Un filosofo che praticamente non compare più nemmeno nei manuali del liceo. Eppure l’Oxford Companion to Philosophy lo definisce “il maggior filosofo britannico fra John Stuart Mill e Bertrand Russell”. Si chiama Francis Herbert Bradley, le sue lezioni ad Harvard all’inizio del Novecento affascinarono a tal punto il poeta Thomas Eliot che sulla filosofia di Bradley ci scriverà la tesi di dottorato. Bradley il filosofo. Eliot il poeta. Correva l’anno 1916. L’autore de La terra desolata (1922) aveva allora 28 anni. La tesi di Eliot s’intitola: Knowledge and Experience in the Philosophy of F.H. Bradley.

“Ogni metafisica – scrive Rovelli – cerca una sostanza prima, un’essenza da cui tutto il resto possa dipendere: il punto di partenza può essere la materia, Dio, lo spirito, le forme platoniche, il soggetto…” Molto in breve, Bradley nel suo testo più importante (Apparenza e realtà) fa l’esempio di una zolletta di zucchero. Uno zuccherino. Una cosa particolare. Che però, come per Nagarjuna, nulla è se non la somma di elementi unificati. La zolletta di zucchero è dolce, bianca, dura. Ci sarà dunque una relazione tale per cui le proprietà della durezza, della dolcezza e della bianchezza si uniscono in una zolletta di zucchero. “Una relazione C – scrive Bradley – nella quale si trovano A (la zolletta) e B (una delle sue proprietà).” Ma questa relazione C dovrà essere per forza distinta da A e B. Dunque entra in scena una ulteriore relazione D che determina le condizioni per cui C lega A e B. E così via all’infinito. Il regresso di Bradley invece che finire nel Vuoto di Nagarjuna (la vacuità) culmina nel Pieno di un olismo metafisico che rappresenterebbe la Realtà con la R maiuscola, oltre l’apparenza. Ma sarebbe interessante approfondire se davvero in Nagarjuna “nessuna metafisica sopravvive” come scrive Rovelli.

Bradley, dopo essere stato un po’ sbrigativamente liquidato da Russell e dal suo collega di Cambridge George Edward Moore, è scomparso dalla circolazione fino a non molto tempo fa. Ci ha pensato tra i pochissimi altri un filosofo britannico contemporaneo di talento, per lo più ignoto in Italia, a riprendere i suoi argomenti, e lo ha fatto in maniera originalissima. Lui si chiama Thimothy Sprigge, ha insegnato per anni all’università di Edimburgo, dove ha ricoperto la cattedra di Logica e Metafisica (sì, perché praticamente ovunque nel mondo anglosassone esistono cattedre di Logica e Metafisica), dopo aver studiato ed essersi formato ad Oxford sotto la supervisione di A.J. Ayer. L’uomo alla destra col cappello in mano è Sprigge, con John Watling:

Sprigge John Watling

Sprigge ha dedicato un libro a Bradley, American Truth and British Reality (1993), quando quasi nessuno più praticamente lo studiava. Sprigge ha coltivato un modo di far filosofia sempre lontano dalle mode del momento, fermamente convinto che la forza di un’argomentazione non dipende da quanto questa argomentazione piace in giro. La frase di Frank Sinatra I did it my way, che chiude la canzone My way, è stata usata da parecchi suoi illustri colleghi per definire lo stile di lavoro di questo filosofo. Sprigge, per primo, ha coniato la celebre espressione What is it like to be a bat?, cosa significa essere un pipistrello, circoscrivendo la domanda fondamentale intorno al tema della coscienza – domanda che ogni teoria materialista della coscienza ignora – nell’espressione what is it like to be. Qualche anno dopo la frase è stata ripresa da un altro filosofo, Thomas Nagel, ed è diventata un classico della filosofia della mente, con implicazioni diverse da quelle di Sprigge. La metafisica di Sprigge difende con rigore la tesi sull’irrealtà del tempo. La teoria della soggettività di Sprigge riporta in auge addirittura il panpsichismo, cioè la tesi secondo cui ogni elemento della realtà, dal più piccolo al più grande, possiederebbe anche una natura psichica. E’ un filosofo analitico, con gli strumenti della filosofia analitica, a dirlo, non un fricchettone reduce da un viaggio a Goa.

Ora, va bene non assecondare le mode del momento, ma non sia mai che di nuovo uno spettro si aggiri per l’Europa, lo spettro dell’idealismo… Non si tratta di questo. Almeno non sembra uno spettro. Basta vedere questa bella TED Conference tenuta da David Chalmers, filosofo che Rovelli conosce, che insegna alla New York University e ha ben poca filosofia idealista nel suo background. Eppure nei 18 minuti della TED anche lui sostiene che il panpsichismo avrebbe buone ragioni dalla sua.

Lo scorso agosto Chalmers con alcuni suoi colleghi filosofi ha partecipato a un seminario al Brooklyn zen center. Non è escluso che in quelle giornate sia stato spesso citato anche Nagarjuna. Qui un report fotografico dal sito personale di Chalmers.

“Quello che davvero ci interessa – scrive Rovelli su La Lettura – non è cosa effettivamente pensasse il priore di un monastero nel sud dell’India di quasi due millenni or sono – quelli sono affari suoi; ciò che ci interessa è la forza di idee che emana oggi dalle righe che lui ha scritto, e quanto queste, intersecandosi con la nostra cultura e il nostro sapere, possano aprirci spazi di pensieri nuovi.” Cosa effettivamente pensasse Nagarjuna sono affari suoi, come sono affari loro cosa effettivamente pensassero Kant e Wittgenstein. Quello che ci interessa sono i loro argomenti oggi. La forza di un argomento ha poco a che vedere con la correttezza filologica, senza nulla togliere ovviamente all’importanza della ricerca filologica. Non è però la sola cosa che conta.

Per esempio. Il Saggio sulla Critica della ragion pura scritto dal filosofo di Oxford Peter Strawson nel 1966 e considerato ormai un classico (in Italia l’ha tradotto Laterza ma è introvabile, il titolo originale è The Bounds of Sense) ha riavviato alla grande lo studio degli argomenti trascendentali in filosofia pur lasciando a desiderare dal punto di vista dell’aderenza filologica al testo di Kant. Wittgenstein, su regole e linguaggio privato del logico e filosofo americano Saul Kripke (tradotto in italiano da Bollati Boringhieri), libro dedicato al “secondo Wittgenstein”, è ormai considerato e discusso come un classico, ma non principalmente per la correttezza filologica rispetto ai testi di Wittgenstein. Mente e mondo di John McDowell (in italiano uscito per Einaudi), altro classico della filosofia analitica contemporanea, è presentato dal suo autore nelle prime pagine come una introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel. Anche qui l’aspetto filologico rispetto agli scritti di Hegel è secondario, viene prima la rilevanza teorica degli argomenti discussi.

Il Nagarjuna che ha letto Rovelli, come lui stesso precisa all’inizio del pezzo, è filtrato dalla lettura di un filosofo analitico, Jay Garfield, che si è formato all’università di Pittsburgh seguendo le lezioni di Wilfrid Sellars. Eccolo, Jay Garfield

Garfield, come ogni filosofo analitico, ha studiato logica, filosofia della mente, metafisica, senza nessuna intrusione del pensiero orientale nella sua formazione. Zero. Solo nel corso del suo primo anno di insegnamento ha incrociato la filosofia buddhista. E’ accaduto per caso, perché uno studente gli ha chiesto di seguirlo in una tesi sul Madhyamaka indo-tibetano, tesi che è stata supervisionata da Garfield insieme a un autorevole esperto americano del pensiero buddhista, Robert Thurman. Il papà della più conosciuta Uma. Eccoli in una foto di famiglia.

Eppure la facoltà di filosofia di Pittsburgh, dove si è formato Garfield, è stata ed è il centro di una costellazione di autori che hanno molto da dire sul tema “le cose sono solo relazioni”, il sottotitolo dell’articolo di Rovelli. John McDowell, autore di Mente e mondo, insegna a Pittsburgh come anche il logico e metafisico Robert Brandom che ha scritto anni fa un libro importante, Making it explicit, in cui argomenta come tutta la nostra conoscenza, anche la più semplice percezione di una cosa o di un colore, avrebbe un aspetto “inferenziale”. Molto molto brevemente, anche perché quello di Brandom è un libro lungo e complicato, se dico “quella macchina è rossa” sto dicendo anche, nello stesso identico momento, implicitamente, che è colorata, non è blu, non è verde eccetera eccetera. Omnis determinatio est negatio, diceva il vecchio Spinoza. Posso insegnare a un pappagallo a dire rosso ogni volta che incontra una cosa rossa, ma quel suo dire che quella cosa è rossa sarà comunque ben diverso dal nostro perché, secondo Brandom, non è inserito in una rete inferenziale implicita, dunque in una rete di relazioni. Che è anche il senso della celebre frase di Wittgenstein “se anche un leone potesse parlare noi non lo capiremmo”. Lui è Robert Brandom

Robert Brandom

Non c’è certezza sensibile se non in una rete di relazioni (di concetti). E in fondo la radice di tutto questo, a Pittsburgh, è Wilfrid Sellars e la sua critica radicale al cosiddetto “mito del dato” contenuta nel libro Empirismo e filosofia della mente, tradotto in italiano da Einaudi. Sellars, il maestro di Jay Garfield, che poi ha scoperto Nagarjuna, il cui Nagarjuna, filtrato col setaccio della filosofia analitica, ha appassionato Rovelli, che ci ha scritto un bellissimo articolo. Anche qui una bella rete di relazioni.

Prima di chiudere, un’occhiata all’“io”. Rovelli: “E io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi vede la stella allora? Nessuno, dice Nagarjuna. Vedere la stella è una componente di quell’insieme che convenzionalmente chiamiamo il mio essere io… ‘Io’ non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di concentrazione occidentale sul soggetto svaniscono nell’aria come la brina la mattina”. Il primo gennaio 2018 sarà passato un anno dalla morte di un filosofo poco letto in Italia ma che ha scritto parecchio proprio sul tema dell’identità personale, soprattutto nel suo libro più noto, Ragioni e persone (tradotto dal Saggiatore negli anni Ottanta e oggi introvabile, fuori catalogo). Il filosofo è lui

Derek Parfit

Si chiama Derek Parfit e ha sviluppato una delle più radicali critiche contemporanee all’esistenza dell’io. Nel 2011 il New Yorker ha dedicato a Parfit un bellissimo articolo, dove tra l’altro la giornalista Larissa MacFarquhar racconta di aver scoperto che alcuni passi del libro Ragioni e persone erano recitati in un monastero buddhista in Tibet come fossero dei mantra.

A memoria mi pare che solo due filosofi italiani abbiano pubblicato un pezzo su Parfit dopo la sua morte, avvenuta appunto il primo gennaio 2017. Sebastiano Maffettone ha scritto un articolo sul Sole 24Ore. Nicla Vassallo sul sito Doppiozero, con questo titolo: “Derek Parfit, il genio da noi sconosciuto”. L’attacco del pezzo di Nicla Vassallo rende bene l’idea: “Se chiedi, per esempio, chi è Hannah Arendt (a mio avviso, donna coraggiosa, eppure non una grande filosofa), a qualche scolarizzato ti sa di norma rispondere, ma, se chiedi al medesimo chi è Derek Parfit, immagino sgrani gli occhi, che non sappia né del suo pensiero, né della sua scomparsa e nulla gli/le importi, soprattutto mentre si sta festeggiando il primo dell’anno.” Proprio in questi giorni si è svolto un ciclo di incontri alla New York University dedicato alla memoria di Derek Parfit. Ecco il link.

Le cattedre di Metafisica e Logica sono (e sono state) coperte da filosofi singolari e talentuosi, spesso del tutto sconosciuti in Italia. Quelli che più piacciono o piacerebbero a Rovelli ovviamente sono i realisti. Due i  mostri sacri: l’australiano David Armstrong, riconosciuto da molti come uno dei più importanti metafisici del Novecento, e il realista più radicale di tutti, che ammette perfino l’esistenza dei mondi possibili (sarebbero sistemi spazio-temporali distinti dal nostro mondo ma altrettanto concreti) e si chiama David Lewis. Lui

David Lewis

Di loro ha scritto la filosofa Franca D’Agostini su La Stampa: “In entrambi la filosofia per così dire respira, diventa ricerca libera e avventurosa, non abbandona il suo antico linguaggio ma riesce, come diceva Paul Valéry, a far cantare le idee”. Sarebbe un buon momento, insomma, per scrivere Sette brevi lezioni di metafisica.

 

 

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