Cos’è un fototesto? Il primo a utilizzare questo termine fu Wright Morris che, nella prefazione al suo “The Inhabitants”, scrive che il testo e le fotografie non si illustrano a vicenda, ma sono portatrici di istanze diverse e non sempre conciliabili, collaborano alla creazione di un significato ulteriore dato dal dialogo e dallo scontro tra due codici differenti. Un fototesto crea una sorta di ecosistema, un ambiente testuale in cui le forme non sono una dipendente all’altra, ma convivono sullo stesso piano, in maniera insubordinata. Su ilLibraio.it un approfondimento (che è anche un viaggio nella storia dell’editoria) in cui si citano, tra gli altri, autori come Jack London, Virginia Woolf, André Breton, Delio Tessa, Elio Vittorini e Pierpaolo Pasolini

Parigi, 12 giugno 1862. Gustave Flaubert ha terminato Salammbô, romanzo storico sulla rivolta dei mercenari del III secolo a.C., che sarà pubblicato il 24 novembre successivo per Michel Lévy frères. Durante la preparazione del volume, l’editore propone di inserire nel libro delle illustrazioni. Quel giorno di giugno Flaubert scrive al suo notaio, Ernest Duplan, una lettera in cui sottolinea il suo categorico “giammai”. 

Ancora Parigi, ma trent’anni dopo: siamo nel luglio 1892 e sulle pagine della storica rivista Mercure de France esce una recensione di Charles Merki a Bruges-la-Morta di Georges Rodenbach, il primo romanzo a utilizzare le fotografie non come semplici illustrazioni, bensì come portatrici di un significato autonomo e in relazione alla narrazione: è la nascita ufficiale di quello che da qualche anno abbiamo iniziato a chiamare fototesto. Merki, tuttavia, si dice scocciato dalle immagini e mentre loda la scrittura di Rodenbach condanna la scelta di inserire delle foto all’interno del romanzo. La fotografia non è considerata un’arte, l’illustrazione è accettabile nei romanzi popolari, o nelle forme discorsive vicine al giornalismo e alla storiografia, ma non nelle opere che vogliono assurgere al rango di letteratura: questo è il giudizio generale che emerge da un’inchiesta del gennaio 1898 condotta ancora da Mercure de France. “Sono contraria con tutte le mie forze”, scrive in quell’occasione Mme Sèverine, “è orribile”. 

Norwich, novembre 2001. W. G. Sebald, solamente un mese prima della sua morte, riesce a dare alle stampe il suo capolavoro, Austertlitz, punto di arrivo di una ricerca letteraria, che affida alle fotografie un ruolo centrale e affatto originale, iniziata negli anni Novanta con Vertigini (1990), Gli Emigrati (1992), Gli Anelli di Saturno (1995), Soggiorno in una casa di campagna (1998, in Italia pubblicati tutti da Adelphi con la traduzione di Ada Vigliani). La fortuna critica di cui godono le opere di Sebald ha stimolato la diffusione e l’interesse di un “genere carsico” – così lo ha definito Andrea Cortellessa – poco riconosciuto e spesso ignorato e finalmente, ora, tornato alla luce: autori affermati, allora, iniziano a rivendicare un primato cronologico (Javer Marías, in un’intervista rilasciata a Oli Hazzard nel 2013 sottolinea di aver inserito delle foto in Todas las almas nel 1989), mentre altri si richiamano esplicitamente al modello e all’estetica sebaldiana: da Filippo Tuena, uno dei primi e più interessanti in Italia (che non a caso firma la prefazione a Il fantasma della memoria. Conversazioni con W. G. Sebald, Treccani 2019), fino al più giovane Marco Lupo, vincitore, quest’anno, del Campiello Opera Prima con Hamburg.

E le opere contemporanee che utilizzano le fotografie sono sempre più frequenti: i feticci di Michele Mari in Asterusher (Corraini) e Leggenda Privata (Einaudi), l’ossessione fotografica in Autopsia dell’ossessione (Mondadori) di Walter Siti, i non-luoghi della riviera romagnola in Condominio Oltremare (L’orma) di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci, i deserti di Giorgio Vasta in Absolutely Nothing (Quodlibet-Humbolt), l’album di famiglia di Annie Ernaux, le immagini di Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, trad. Massimo Bocchiola) di Safran Foer, le foto di Gerda Taro e Robert Capa che aprono e chiudono La Ragazza con la Leica (Guanda) di Helena Janeczek. 

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Fig. 1 Esempio di pagina da Austerlitz

Nel 2014, in un articolo del New York Times, Hari Kunzru, recensendo Nel mondo a venire di Ben Lerner, parla addirittura di “novel after Sebald”, ma la novità segnalata dal giornalista è, in realtà, soltanto una questione quantitativa e non qualitativa: l’opera di Sebald non nasce dal nulla, non è un fortunato incontro e dialogo fra la letteratura e la fotografia, ma piuttosto uno dei punti più luminosi di una vasta e poco esplorata galassia le cui stelle portano i nomi di Georges Rodenbach, André Breton, Jack London, Virginia Woolf, Wright Morris, Bertolt Brecht, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Julio Cortázar, Lalla Romano, Annie Ernaux, Antonella Anedda, Michele Mari, Walter Siti, e molti, moltissimi altri.

Fra i cento anni che separano l’inchiesta del Mercure de France e l’esordio narrativo di Sebald non c’è il deserto, ma uno spazio vitale, da percorrere ed esplorare, di cui si è persa memoria: l’editoria ha faticato, a causa della qualità e del prezzo della carta, delle tecnologie di produzione, a stampare e far circolare opere di questo tipo e la critica letteraria ha avuto difficoltà, ha scritto Michele Cometa, anche solo “ad accettarne l’esistenza tra le forme alte di letteratura (per non dire del canone) preferendo per lo più relegare questi ibridi tra le forme giornalistiche, quando addirittura non ne ha negato l’esistenza amputando l’immagine dal testo e viceversa”. Può stupire, ma fino a un certo punto, che nel 1977 Bruce Chatwin si rallegrasse per l’assenza delle foto nell’edizione americana del suo In Patagonia: il rischio era quello che il suo lavoro non venisse preso seriamente dai critici letterari. Ma la storia delle amputazioni è ben più lunga e poco conosciuta. 

Torniamo allora a Parigi, nel 1892. Nel giugno di quell’anno esce per Flammarion, dopo la pubblicazione a puntate su Le Figaro, Bruges-la-Morta di Georges Rodenbach, con trentacinque fotografie che inquadrano vari scorci della capitale delle Fiandre Occidentali (sull’Internet Archive è disponibile la riproduzione digitale della prima edizione). Il romanzo viene tradotto per la prima volta in Italia nel 1907 dal poeta crepuscolare Fausto Maria Martini, ma il testo non presenta le foto: né vengono reinserite nelle successive traduzioni e continuano a mancare nell’edizione del 2016 edita da Fazi.

Un po’ provocatoriamente potremmo dire che i lettori italiani  non hanno mai letto Bruges-la-Morta perché le immagini, lì, non sono un semplice orpello, un ornamento di secondaria importanza, ma svolgono una funzione principale nella retorica del testo, collaborano alla creazione del significato: non illustrano nessuna scena del romanzo, piuttosto impostano la tonalità emotiva della narrazione, creano uno spazio vissuto entro il quale si muove il protagonista e riflettono i temi e gli stili del testo. Bruges-la-Morta, dunque, non è semplicemente un romanzo illustrato, ma il primo di una lunga serie di fototesti. 

Ma cos’è un fototesto? Il primo a utilizzare il termine fu Wright Morris nel 1972 in occasione della riedizione del suo The Inhabitants (1946). Nella prefazione a quel testo, Morris scrive che il testo e le fotografie non si illustrano a vicenda, ma sono portatrici di istanze diverse e non sempre conciliabili, collaborano alla creazione di un significato ulteriore dato dal dialogo e dallo scontro tra due codici differenti. Un fototesto crea una sorta di ecosistema, un ambiente testuale in cui le forme non sono una dipendente all’altra, ma convivono sullo stesso piano, in maniera insubordinata, non si lasciano ridurre a un principio unico e trovano una sintesi solo in virtù delle ragioni macrotestuali, delle leggi dell’ecosistema, appunto. La visualità dell’immagine si scontra e dialoga con la parola scritta, continuamente spezzata, sincopata, dalla fotografia, mettendo in gioco sguardi differenti, possibilità alternative di lettura, spostamenti di significato.

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Fig. 2 Esempio di pagina da The Inhabitants. Fonte: https://www.flickr.com/photos/clarkvr/2827873421

Se continuiamo a percorrere il campo della fototestualità alla ricerca di possibili mappe per orientarci, per ridare visibilità a una forma letteraria che alla visualità affida la sua genesi, dalla Parigi fin de siècle ci spostiamo ai bassifondi londinesi. È il 1903 e Jack London dà alle stampe Il popolo degli abissi corredato da quasi un centinaio di fotografie (il testo in inglese con le immagini è gratuitamente consultabile sul sito della Sonoma State University). Se il nome di Rodenbach circola, per lo più, fra circoli di nicchia, la fama di London è indiscussa, anche grazie al mito creatosi intorno alla figura dell’autore, la cui vita è più romanzesca delle sue storie.

Eppure questo mito tralascia molto spesso una parte non secondaria: fra il 1900 e il 1916 London scatta circa dodicimila fotografie, soprattutto durante i suoi lunghi viaggi, e questa prolifica attività di fotografo, nient’affatto amatoriale, è messa a frutto anche nella sua indagine dei bassifondi londinesi. Armato di penna e macchina fotografica, London si finge povero, dorme per strada con i senzatetto, lavora con loro nelle workhouse, mangia il loro cibo, impara a parlare come loro e racconta quest’esperienza nel Popolo degli abissi, che non è un caso isolato all’interno della carriera del romanziere americano, ma un progetto consapevole che si inserisce all’interno di una lunga frequentazione con due modalità di rappresentazione del mondo: la fotografia e la letteratura.

Il popolo degli abissi, tuttavia, non è soltanto un reportage e un’inchiesta sulla povertà londinese dell’East End, ma anche un testo letterario sulla vita urbana, sulla posizione del suo autore all’interno della civiltà, sul rapporto fra wilderness e città, sull’impero, una meditazione sulla miseria, il dolore, il destino dell’umanità sotto il capitalismo, il conflitto di classe, un racconto di viaggio non lineare, costruito per scene, a tratti umoristico, di un picaro che si ritrova nel cuore dell’orrore della modernità industriale. Allo stesso modo, la fotografia non è un semplice documento di quella realtà, ma imposta degli sguardi precisi che propongono altre storie, altre argomentazioni: una foto di senzatetto che dormono in un parco richiama, nello stile, le immagini dei caduti in battaglia durante la guerra civile americana (il conflitto più fotografato dell’Ottocento e portato alla coscienza visiva del grande pubblico soprattutto da Matthew Brady): l’allusione è quasi esplicita e ci parla del controllo del corpo e del tempo di questi vagabondi, del parallelismo fra l’industrializzazione e la guerra, della riduzione dei poveri a schiavi e vittime. 

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Fig. 3 da Jack London, People of the Abyss

Se dalla Londra delle classi subalterne ci spostiamo di qualche chilometro e di qualche anno a Monk’s House, la casa di campagna dei coniugi Woolf, troviamo, fra gli scaffali della libreria, quattro libri di un’autrice notissima che contengono delle fotografie: Orlando (1928), Flush (1933), Tre Ghinee (1938) e Roger Fry (1940).

Virginia da sempre nutre un vivo interesse per la fotografia: nipote della più importante fotografia dell’epoca vittoriana, Julia Margaret Cameron, riflette sull’arte fotografica in numerosi saggi, scatta lei stessa moltissime fotografie (nei suoi album se ne trovano più di mille), spende, in un mese, cinque volte lo stipendio della sua domestica per acquistarne di nuove. Non dovrebbe stupire, allora, di trovare delle immagini anche nei suoi libri: in Orlando, biografia fantastica di un uomo che vive per quattro secoli e, a metà narrazione, diventa una donna, le foto del personaggio principale partecipano alla definizione di quella che oggi definiremmo la queerness dell’opera. Un libro che fa la parodia di numerosi generi letterari e mette al centro un cambio di sesso, il sovvertimento dei ruoli di genere: Orlando assume così, visivamente, vari volti, e le immagini creano una galleria di ritratti fantastica che problematizza il concetto di identità e, attraverso lo stile fotografico, riflette contemporaneamente sugli stereotipi di genere, sulla moda, su come l’immaginario, ipostatizzato dalle fotografie, influenza l’agire umano e la differenza sociale fra i sessi.

Le foto, dunque, non dicono la verità storica, come un luogo comune ci ha abituato a pensare, ma collaborano alla creazione di una verità artistica di altro livello. 

Lo spazio del fantastico è anche quello aperto e creato dalle fotografie di Nadja (1928) e L’amour fou (1937) di André Breton (le foto di Nadja sono disponibili sul suo sito). Siamo di nuovo a Parigi e il caposcuola del movimento surrealista scrive nella prefazione a Nadja di aver inserito delle immagini nel libro per evitare le descrizioni e scardinare i modi del romanzo borghese. Eppure Nadja (Einaudi, trad. Giordano Falzoni) è un libro pieno di descrizioni e le foto tematizzano piuttosto l’enigma della realtà, il mistero dell’amore e segnalano la ricerca di uno spazio meraviglioso (sur-reale) nella sfera del quotidiano. L’immagine collabora alla rappresentazione di fatti il cui valore risiede nel loro carattere completamente inatteso, incontrollabile, capaci di generare associazioni nuove nel pensiero, e in grado di funzionare come segnali che mostrano i nessi e le relazioni fra un io scisso e instabile e un mondo enigmatico.

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Fig. 4 Esempio di pagina da Nadja. Fonte: http://writingwithimages.com/breton-nadja/

Non è un caso che Parigi e Londra siano i luoghi più frequentati da chi voglia percorrere gli spazi letterari del fototesto: è qui che nasce la fotografia, con Daguerre in Francia, con Talbot, in Inghilterra, ed è soprattutto qui che si sviluppa un’industria e un dibattito attorno a questo nuovo mezzo di riproduzione della realtà. Se ci spostiamo in Italia dovremmo attendere gli anni Trenta del Novecento per la prima opera che utilizza in maniera consapevole le foto. Si tratta di un racconto poco noto di un autore pressoché dimenticato: Brutte fotografie di un bel mondo di Delio Tessa (1937-1938) in cui una prosa dal carattere fortemente autobiografico e aneddotico dialoga con una serie di foto di famiglia.

Ma è un caso isolato e si dovranno attendere gli anni Cinquanta per il primo romanzo fototestuale: nel 1953 Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini viene ripubblicato per Bompiani in una nuova edizione accompagnata da 188 fotografie (169 delle quali scattate da Luigi Crocenzi). Vittorini è sicuramente l’autore italiano del Novecento più attento alle possibilità di sperimentazione e dialogo fra letteratura e immagine: recensisce molti dei fototesti americani della Grande Depressione e da quelle esperienze si lascia influenzare: già la nota antologia Americana (Bompiani, 1942) era accompagnata da un repertorio visivo molto vario che si faceva occasione di commento e controcanto ai testi, di approfondimento simbolico, di ulteriore a autonomo discorso, introducendo, così, riferimenti alla questione operaia, alla repressione poliziesca, alla Chiesa e al razzismo. L’esperienza di Americana continuerà con il layout della rivista Il Politecnico e troverà il suo culmine in Conversazione in Sicilia dove le foto “non sono nel senso solito” (lo scrive lo stesso Vittorini a Aldo Camerino il 5 dicembre 1952) e collaborano alla creazione del senso, ancorano spazialmente la narrazione a una geografia determinata, suggeriscono percorsi interpretativi alternativi, impliciti o assenti nel testo verbale, approfondiscono la dimensione simbolica dell’opera. Conversazione illustrata, tuttavia, riceve un’accoglienza fredda, quando non negativa: la critica e il pubblico italiani non sono pronti per un’operazione del genere e si trovano spiazzati. 

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Fig. 5 Esempio di pagina da Conversazione in Sicilia. Fonte: http://www.arabeschi.it/conversazione-illustrata-contrabbando-fototestualein-elio-vittorini/

Ciononostante, negli anni successivi, in Italia, escono fototesti di grande interesse: Un paese (Einaudi, 1955) di Cesare Zavattini e Paul Strand che pone uno sguardo sociale e antropologico sulla marginalità geografica; due racconti schizofrenici e allucinati di Gianni Celati con le fotografie di Carlo Gajani, Il chiodo in testa (1973) e La bottega dei mimi (1977), ripubblicati qualche anno fa in una bellissima edizione nella collana fuoriformato dell’orma. O ancora La divina mimesis (Einaudi, 1975) di Pier Paolo Pasolini, il cui ultimo capitolo, Iconografia ingiallita, è una sequenza di immagini definita un “poema fotografico”. Nello stesso anno esce per i tipi di Einaudi Lettura di un’immagine di Lalla Romano (poi ampliato in Romanzo di figure e Nuovo romanzo di figure), in cui le fotografie di famiglia scattate dal padre vengono risistemate in capitoli tematici per costruire quasi una storia di romanzo che racconti, dalla prospettiva femminile della figlia, la storia della propria infanzia (e nello stesso anno fa qualcosa di simile un insospettabile Roland Barthes). Ancora nel 1985 esce, per Sellerio, Cronachette di Leonardo Sciascia, microritratti verbo-visivi che si muovono sul crinale fra realtà e finzione. 

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In questi stessi decenni Julio Cortázar compone i suoi libri-almanacco e decide di trascorrere un mese in autostrada per scoprire se Marsiglia davvero esiste: e il resoconto (fotografico e verbale) di quel viaggio è un bellissimo racconto fantastico del 1983, scritto a quattro mani con Carol Dunlop intitolato Gli autonauti della cosmostrada (Einaudi, trad. Paola Tomasinelli). John Berger riflette sulla fotografia alternativa e, insieme a Jean Mohr, compone A Fortunate Man (1967), racconto biografico di un medico di campagna, e Il settimo uomo (1975, trad. Maria Nadotti, Contrasto, 2017), inchiesta e riflessione sulla migrazione. Vladimir Nabokov inserisce delle foto personali in Parla, Ricordo (1966, trad. Anna Raffetto, Adelphi, 2010). Il fotografo di moda Richard Avedon e lo scrittore James Baldwin collaborano per la realizzazione di Nothing Personal un libro di denuncia sulla società americana (e parallelamente si può leggere America and Americans di Steinbeck). Nel 1980 Hervé Guibert fotografa due sue zie e le trasfigura in ombre e fantasmi in Suzanne et Louise.

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, i percorsi da tracciare sono ancora molti, le stelle da posizionare nella galassia del fototesto innumerevoli e la storia di questa forma artistica è ancora tutta da scrivere. Ma questa terra di nessuno esiste e merita di essere riscoperta, ristampata, ripubblicata, riletta.    

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