Ernest Hemingway, George Byron, Sylvia Plath, Nikolaj Gogol’, Malcolm Lowry, Bruno Schulz, Romano Bilenchi, Walter Benjamin… Le storie di otto libri perduti, bruciati, strappati, rubati, semplicemente scomparsi, ma che sono stati scritti, che sono sicuramente esistiti. Nessuno conosce i percorsi sicuri per ritrovarli. Ma la loro ricerca non è già un modo per leggerli? Su ilLibraio.it un estratto da “Storie di libri perduti” di Giorgio van Straten

Storie di libri perduti (Laterza) dello scrittore Giorgio van Straten (che dirige l’Istituto Italiano di Cultura a New York ed è uno dei direttori di Nuovi Argomenti) racconta la storia di libri che c’erano e non ci sono più.

I libri perduti non sono libri dimenticati oppure libri pensati dall’autore e mai nati. Sono quelli che l’autore ha scritto, che qualcuno ha visto, magari ha anche letto, e che poi sono stati distrutti o dei quali non si è saputo più niente. Libri scomparsi, ma che sono di certo esistiti. Ogni libro perduto ha la sua storia che non assomiglia alle altre, se non per qualche particolare che stabilisce strane relazioni.

Si parte così dalla casa di Firenze di Romano Bilenchi per poi passare all’Inghilterra di Byron e di Sylvia Plath, alla Francia di Hemingway, attraverso la Russia di Gogol’ e la frontiera spagnola che Walter Benjamin cerca di superare, dalla Polonia occupata dai nazisti di Bruno Schulz fino al remoto paesino del Canada dove si rifugia Malcolm Lowry.

Layout 1

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo l’introduzione:

Il rischio di un’impossibilità

Questo è il mio viaggio sulle tracce di otto libri perduti, libri mitici come le miniere nella corsa all’oro: tutti i cercatori sono sicuri che esistono e che saranno proprio loro a trovarle, ma nessuno in realtà ha prove certe e percorsi sicuri. Anche nel mio caso i segni sono labili, le speranze di ritrovare quelle pagine scarse. Eppure il viaggio vale comunque la pena.
I libri perduti sono quelli che sono esistiti e ora non ci sono più. Non sono quindi i libri dimenticati che, come succede alla maggior parte degli uomini, scompaiono a poco a poco dal ricordo di chi li ha letti, evaporano dalle storie della letteratura, svaniscono insieme all’esistenza dei loro autori. Quei libri è possibile trovarli in qualche fondo di biblioteca e un editore curioso li potrebbe sempre ristampare. Magari nessuno ne sa più niente, ma ci sono ancora.
E non sono neppure quelli mai nati; pensati, attesi e sognati, ma che le circostanze hanno impedito di scrivere. Certo, anche in questo caso siamo di fronte a una mancanza, a un vuoto che non si può più riempire. Ma si tratta di libri che non sono mai esistiti.
Per me i libri perduti sono quelli che l’autore ha scritto, anche se qualche volta non è riuscito a finirli; sono libri che qualcuno ha visto, magari ha anche letto, e che poi sono stati distrutti o dei quali non si è saputo più niente.
I motivi che portano alla perdita sono i più diversi. Quei testi possono essere caduti sotto la scure dell’insoddisfazione dell’autore, della sua ricerca di una perfezione spesso impossibile da raggiungere. Si può certo sostenere che se non ne era soddisfatto chi li aveva scritti magari ne saremmo stati insoddisfatti anche noi e che se l’insoddisfazione prendesse certi scrittori contemporanei ne beneficeremmo tutti. Ma poi ci troviamo a leggere le opere che qualche coraggioso ha sottratto alla volontà distruttiva dell’autore, come nel celeberrimo caso di Kafka, e ci rendiamo conto della fortuna che questa volontà non sia stata rispettata.
Oppure sono state le circostanze ambientali e storiche a creare il vuoto; la seconda guerra mondiale soprattutto, perché è stata una guerra che è penetrata ovunque senza distinguere fra la linea del fronte e le retrovie, fra militari e civili. E i tentativi di mettere al sicuro quello che era stato scritto non sempre sono andati a buon fine.
Altre volte è intervenuta la censura, persino l’autocensura, perché quei libri apparivano scandalosi, pericolosi, non solo in senso figurato, se nell’Ottocento e persino nel Novecento c’erano ancora paesi europei in cui l’omosessualità era un reato. È successo anche che una dimenticanza o una leggerezza abbiano provocato un incendio, o un furto (peraltro di scarsa utilità per chi l’aveva commesso: cosa poteva farsene di tutta quella carta?) e che così si siano distrutti anni di lavoro costringendo l’autore a ricominciare da capo, ammesso che ne abbia avuto la forza. E poi c’è la volontà degli eredi, in particolar modo dei vedovi e delle vedove, il loro voler proteggere se stessi e i propri congiunti, la reputazione del marito o della moglie dall’incompiutezza delle loro opere, oppure la vita di persone che in quegli scritti erano raffigurate, riconoscibili.
Negli otto casi che racconterò ci sono esempi di tutte queste possibilità. La conclusione è sempre la stessa: il libro in questione sembra perduto per sempre, anche se rimane a volte l’ipotesi che qualcuno, da qualche parte…
Ogni volta che nella vita mi sono imbattuto in un libro perduto, ho provato la stessa sensazione che mi prendeva leggendo da piccolo certi romanzi che parlavano di giardini segreti, teleferiche misteriose, castelli abbandonati: l’occasione di una ricerca, il fascino di ciò che sfugge e la speranza di essere l’eroe capace di risolvere il mistero.
In quei romanzi da ragazzi, in effetti, la soluzione arrivava verso la fine del libro, suggerita dall’autore ovviamente, anche se a me sembrava frutto della mia attenzione e della mia fantasia. Di questi otto libri perduti, invece, non ne ho trovato nessuno, almeno non nel senso tradizionale del termine. Piuttosto, come si vedrà nel primo capitolo, mi è capitato di leggere un romanzo prima che si perdesse, ma di non riuscire a impedirne la distruzione.
Forse è proprio per quella mancanza, per quel mio fallimento che ho deciso di mettermi sulle tracce di altri libri perduti, di raccontarne le storie, come fossero avventure. L’ho fatto prima in una serie di trasmissioni radiofoniche, accompagnato da alcuni amici appassionati di quegli autori e di quei libri. Insieme abbiamo percorso le strade che avevano portato alla loro scomparsa, almeno in parte consolati dalle pagine che erano rimaste e che potevamo continuare a leggere.
Poi ho deciso di tornare a seguire quelle strade da solo, come a volte succede con i posti dove siamo stati bene, nella speranza di riprovare le stesse sensazioni, in questo caso magari anche per capire se qualche indizio, che avevamo ingiustamente trascurato, aprisse nuovi squarci su come fossero andate davvero le cose.
Ovviamente ho continuato a brancolare nel buio, ma, come succede a volte viaggiando in solitudine, ho notato cose alle quali, camminando in compagnia, non avevo fatto caso.
Ogni libro perduto ha la sua storia che non assomiglia alle altre, se non per qualche particolare che stabilisce strane relazioni, per esempio, fra Romano Bilenchi e Sylvia Plath (un romanzo incompiuto e il coniuge che decide per loro), fra Walter Benjamin e Bruno Schulz (nati nello stesso anno, tutti e due ebrei, tutti e due scomparsi durante la guerra insieme ai loro ultimi libri) o fra Nikolaj Gogol’ e Malcolm Lowry (entrambi volevano scrivere la Divina Commedia a modo loro e non ci sono riusciti). Ma di certo quel che torna con inquietante frequenza è il fuoco. La gran parte delle pagine perdute di cui parliamo, infatti, sono bruciate, e questo ci fa riflettere sulla loro fragilità. Perché parliamo di tempi (i due secoli prima di questo) in cui solo la carta permetteva la conservazione delle parole che gli uomini scrivevano. E, come è noto, la carta brucia molto facilmente.
Si potrà pensare che oggi sia più complicato perdere un libro, che i mille supporti su cui possiamo salvarlo escludano i rischi che qualcosa si distrugga per sempre. Eppure, mi sembra che proprio l’immaterialità in certi casi sia altrettanto fragile della vecchia carta, e che quelle scialuppe di parole, che proviamo tenacemente a condurre in mare aperto perché qualcuno le noti e le accolga nel proprio porto, possano scomparire in uno spazio infinito, come astronavi alla deriva nell’universo che si allontanano da noi sempre più velocemente. Ma queste perdite, poi, sono davvero solo ed esclusivamente perdite? Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un vecchio quaderno dove avevo appuntato alcune frasi che mi avevano colpito. Ce n’era una presa dalla Recherche di Proust. Diceva:

Ma per scatenare quella tristezza, quel sentimento di irreparabile, quelle angosce che preparano l’amore, ci vuole – ed è forse questo, più che una persona, l’oggetto stesso che la passione cerca ansiosamente di attingere – il rischio di un’impossibilità.

E se la passione che mi prende, che ci prende, di fronte a questi libri perduti avesse le stesse origini della passione amorosa descritta da Proust? Se fosse proprio il rischio di un’impossibilità a giustificare quell’insieme di slancio e malinconia, di curiosità e fascino, che cresce al pensiero di qualcosa che è esistito ma che non possiamo più stringere nelle nostre mani? Se fosse il vuoto che ci affascina, perché lo possiamo riempire con l’idea che ciò che manca fosse il tassello decisivo, perfetto, ineguagliabile?

E poi quei libri diventano sfide all’immaginazione, ad altre scritture, allo sviluppo di passioni alimentate dalla loro stessa inattingibilità. Non è un caso che molte di queste pagine perdute abbiano finito per provocare la scrittura di nuovi libri. Ma non è solo questo, è qualcosa di più. In un romanzo della fine dello scorso secolo, una scrittrice canadese, Anne Michaels, ha scritto:

Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. (…) Se uno non ha più la terra ma ha il ricordo della terra, allora uno può sempre disegnare una mappa.

Ecco, questo libro è la mia mappa personale fra i ricordi di libri assenti che, tranne uno, non ho potuto leggere. E, trattandosi di una mappa, quando mi sono chiesto in che ordine raccontare queste storie – se ricorrendo a un criterio cronologico, o alfabetico, oppure ad analogie che da un caso portassero all’altro, e così via – alla fine ho scelto la geografia: un giro del mondo in otto volumi, invece che in ottanta giorni. Sono partito dal libro che non sono riuscito a salvare, da casa mia, perché la mia casa, come quella di Romano Bilenchi, è a Firenze, e poi mi sono trasferito a Londra e a Londra sono tornato, come Phileas Fogg, dopo un percorso circolare, passando per Francia, Polonia, Russia, Canada e Spagna. E alla fine del viaggio mi sono accorto che i libri perduti hanno qualcosa che tutti gli altri non possiedono: lasciano a noi non lettori la possibilità di immaginarli, di raccontarli, di reinventarli. E se da un lato continuano a sfuggirci, ad allontanarsi quanto più cerchiamo di afferrarli, dall’altro riprendono vita dentro di noi e alla fine, come il tempo proustiano, possiamo dire di averli ritrovati.

(continua in libreria…)

Libri consigliati