A quasi cento anni dalla prima edizione, è tornato in libreria uno strambo racconto – autobiografico eppure in terza persona, di finzione però articolato come un saggio: “L’Oceanografia del tedio” di Eugenio d’Ors, capolavoro poco conosciuto del Novecento. Tra riflessione filosofica sulla noia e “rêverie” di un ozioso pomeriggio estivo, un libro per flâneur contemporanei, stufi dell’iperattivismo da social network…

In letteratura – diceva Pontiggia, grossomodo – la morte non è mai morta, smorta, inerte, statica, così come la noia, sulla pagina, mai può essere noiosa – e questo lo dimostrano, grossomodo, sia Moravia sia Gončarov sia il meno conosciuto Eugenio d’Ors.

L’Oceanografia del tedio di Eugenio d’Ors è appunto un libro sul tedio che di tedioso ha ben poco, nonostante qualche sbadiglio qua e là ci scappi, ma più per motivi di forma che di sostanza: già nel titolo, quest’opera aspira a essere «opera d’arte», poiché, scrive “l’Autore” (così nel testo, ndr), “l’opera d’arte non è un romanzo né un poema. È semplicemente un titolo”. Anche Luciano Anceschi considerò questo strambo racconto – autobiografico eppure in terza persona, di finzione però articolato come un saggio – un capolavoro del Novecento, da poco tornato in libreria per Aragno Editore con la curatela di Alessandra Ruffino, a quasi cento anni dalla prima edizione datata 1918.

aragno

Catalano doc, d’Ors (1881 – 1954) fu scrittore, critico d’arte, filosofo, pedagogo, esponente del Noucentisme (movimento culturale catalano di inizio Novecento: “nou” in catalano significa “nove” ma anche “nuovo”, ndr) nonché fascistissimo burocrate presso un ministero del regime franchista.

Colto, elitario, sfuggente, suadente, fu un intellettuale smaccatamente antidemocratico, sin nelle viscere della sua prosa spocchiosa e aulica, ricercata e barocca, ben consapevole insomma che “qualunque artista di polso si sente un dio”.

L’esile e, sembra, pretestuosa trama del libro si dipana a partire da un sibillino monito salutistico, impartito all’Autore da un fantomatico e altrettanto maiuscolo Dottore: il medico, “che conosce gli esaurimenti”, prescrive infatti al protagonista l’”unica medicina per la salute: il tedio. Senza attenuazioni, senza gradazione. Niente conversazione; silenzio. Niente letture; letargo… Nei limiti del possibile, né un movimento, né un pensiero!”.

Solerte, l’Autore parte per la villeggiatura per distrarre e ritemprare i fragili nervi, col proposito di dedicarsi solo a una “estenuata inerzia” e a “emozioni geometriche”, lasciando perdere, viceversa, “quell’altro dondolare, quell’altro ‘labor’, che tutti ormai chiamano ‘flirt’». D’Ors, o chi per esso, riscopre così la segreta voluttà del tedio, in cui immergersi “come naufrago nel mare… Così è il tedio, come il mare… Fratello Tedio, quanto profondo, quanto opulento sei!”.

Eugenio d’Ors

Il paradiso dei sensi gli si dischiude orizzontalmente, sdraiato su una borghesissima chaise-longue; scherza, tuttavia, l’annoiato: “Nessuno potrà togliere al mio umile dramma il merito di riunire, e anzi esagerare, le ‘tre unità’ classiche… La unità di tempo, di luogo e di azione. Aggiungiamo anche, per ornamento, l’unità di chaise-longue”.

Solo supino e inerte l’Autore impara a conoscere “le delizie del crampo e dello stiracchiamento”, seguite dalla libidine dell’emicrania: dopodiché, può pacificamente dedicarsi alla contemplazione della natura, può «percepire il significato e la missione di una nube», può scrutare le “fotosfere”, interrogare i muri bianchi, ascoltare i dialoghi pensosi tra due dee e tentare di sedurre una giovane lettrice, sua vicina di poltrona. Sprofondando sonnecchiante tra una sinestesia e una cinestesia, d’Ors ha ancora sufficiente lucidità per darsi all’ironia: “Io non penso. Dunque io esisto”, con buona pace di Cartesio, ma non del tedio.

Eppure la luna di miele col tedio dura poco, tre ore al massimo, giusto il tempo di capire che “chi ha la fiamma deve ardere”. E ciao Dottore! E ciao prescrizione! L’Autore è costretto ad arrendersi alla sua “legge” interiore, che non è la morale kantiana, ma “il fervore inesauribile”, la fregola sempiterna, il moto perpetuo del sistema nervoso centrale.

Fuggito dalla vacanza annoiante, il prim’attore rientra celermente in città: una Barcellona brulicante e tentacolare, nonostante sia agosto e nonostante abbia appena piovuto. Lì va incontro a un amico pittore, reduce da una soggiorno salubre in un sanatorio svizzero, perché anch’egli malato di nervi. L’amico lo rallegra non poco, spifferandogli tutti i suoi accoppiamenti giudiziosi all’interno della clinica, con signorine esaurite tanto quanto lui. Non sappiamo all’Autore, ma alla fine al Lettore resta l’amarezza, l’amarezza di sapere che nemmeno in Svizzera, nemmeno in montagna, nemmeno al sanatorio è più possibile annoiarsi in santa pace: che tedio!


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