Il digitale ha cambiato le nostre abitudini, ma le mani restano molto importanti per gli uomini. Su ilLibraio.it un estratto dal saggio “Mani – Come le usiamo e perché” dello psicanalista lacaniano Darian Leader

Il saggio Mani. Come le usiamo e perché (Ponte alle Grazie) dello psicanalista lacaniano Darian Leaderche abbiamo già approfondito qui – racconta la storia dell’uomo a partire dal ruolo delle mani, raccogliendo numerosi esempi e aggiornate teorie sul loro uso, sui loro significati simbolici e sul rapporto tra gestualità e nuove tecnologie.

Mani

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto:

A quanto si dice, la nuova era di Internet, degli smartphone e dei personal computer avrebbe determinato cambiamenti radicali nella nostra identità e nel modo in cui entriamo in rapporto con gli altri. Gli antichi vincoli di spazio e di tempo sembrano sciolti grazie alle tecnologie digitali, che strutturano la nostra vita quotidiana. Possiamo comunicare all’istante a distanze remote e minime: parlare su Skype con un parente oltreoceano o chattare con un compagno di classe seduto al banco accanto. Video e foto scorrono attraverso il Web con un tocco di schermo, e le reti sociali trasmettono quisquilie di ogni vita pubblica e privata. In treno, sull’autobus, al bar e in automobile, nessuno fa altro: digitare e parlare, navigare e cliccare, scrollare e chattare.

I filosofi, i teorici sociali, gli psicologi e gli antropologi si sono tutti espressi sulla nuova realtà che oggi, nel ventunesimo secolo, abitiamo come conseguenza di questi cambiamenti. Le relazioni sono, così si dice, più superficiali o invece più profonde, più durature o più passeggere, più fragili o più radicate. Per molti il luogo di lavoro si fa virtuale, ed emergono nuove possibilità di costruirsi la vita al di fuori del paradigma “dalle nove alle cinque”. Possiamo usare questi cambiamenti in un modo o nell’altro: ma siamo tutti d’accordo che di cambiamenti si tratta, che il mondo è un posto diverso, che l’era digitale è, incontestabilmente, qualcosa di nuovo.

Se provassimo, però, a osservare questo capitolo della storia umana attraverso una lente appena diversa? Se, anziché concentrarci sulle nuove promesse o i nuovi scontenti della civiltà contemporanea, vedessimo i mutamenti in corso innanzitutto come i primi e i principali che siano mai avvenuti nel modo in cui l’uomo utilizza le sue mani? L’era digitale ha certamente trasformato molti aspetti dell’esperienza, ma la sua caratteristica più evidente, e più trascurata, è che consente di tenere le mani occupate in molti modi inediti.

L’uso delle mani, non c’è dubbio, sta cambiando. Il proprietario della Shakespeare and Company, la famosa libreria parigina, racconta di come i suoi giovani clienti tentino di voltare le pagine facendole scorrere; la Apple ha persino fatto domanda di brevetto per alcuni gesti delle mani. La domanda 7844915, presentata nel 2007, riguarda lo scorrimento dei documenti e il gesto del pizzico per zumare; la 7479949 del 2008 riguarda vari gesti multitocco. Entrambe sono state giudicate inammissibili: non perché sia impossibile brevettare questi gesti, bensì perché erano già coperti da altri brevetti.

I medici, allo stesso momento, osservano una crescita spaventosa di disturbi manuali legati all’uso di computer e telefoni: alle dita e al polso imprimiamo movimenti cui sono del tutto impreparati. Si prevede che queste nuove abitudini comporteranno persino modifiche tanto nei tessuti duri quanto in quelli molli della mano. Finiremo per avere mani diverse, proprio come l’uso delle posate, così si sostiene, ha alterato la struttura della bocca, modificando la topografia del morso. Il morso aperto, che avevamo fino a circa duecentocinquanta anni fa, è stato sostituito dal sovramorso: grazie ai nuovi modi di tagliare il cibo che il coltello da tavola ha reso possibili, gli incisivi superiori sopravanzano l’arcata inferiore. Che il corpo sia subordinato alla tecnologia, ha un riscontro nel nome di alcuni prodotti contemporanei: in “iPad” e “iPhone” sono il pad e il phone a ricevere la maiuscola, e non l’”I”, l’io dell’utente.[1]


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Eppure, se è vero che il modo di usare le mani sta cambiando, non c’è nulla di nuovo nel tenerle impegnate. Tessere, filare, lavorare a maglia, scrivere sms: le mani hanno sempre avuto molto da fare. Al parco giochi, un tempo i genitori lavoravano a maglia o leggevano il giornale, oggi mandano messaggi o navigano. A casa, a occupare mani e dita sono i videogiochi, e nel gioco più diffuso al mondo, Minecraft, una mano sullo schermo accompagna il giocatore ovunque vada. L’incredibile popolarità del Lego non è neppur essa dovuta alle astuzie del marketing ma alla sua funzione di base: dare da fare alle mani.

Una volta riconosciuta l’importanza del tenere le mani occupate, possiamo cominciare a considerare le ragioni di questa strana necessità. Che pericolo corriamo se le mani se ne stanno senza far niente? Che funzione ha davvero la loro incessante attività? Che ruolo hanno le mani nella vita di un neonato e come cambia durante l’infanzia? Che rapporti esistono fra mani e bocca? E che cosa accade se qualcosa c’impedisce di usare le mani? Gli stati d’ansia, irritazione e persino disperazione che potremmo sperimentare in quel caso ci dimostrano che tenere le mani occupate non è questione di svago o capriccio, ma riguarda un aspetto profondo della nostra esperienza corporea.

E questo ci conduce a un paradosso che attraverserà tutte le pagine che seguono. La risposta più ovvia alle domande che ci siamo appena posti è che per fare qualsiasi cosa abbiamo bisogno delle mani. Le mani ci servono. Sono gli strumenti dell’azione esecutiva, i nostri utensili. Ci permettono di manipolare il mondo in maniera da realizzare i nostri desideri. Per votare, stipulare un accordo, confermare un’unione, mostriamo le mani, in tal misura che la mano spesso simboleggia l’agente umano cui appartiene. Nei film, gli zombie o Frankenstein camminano con le mani tese davanti a sé: non è segno di problemi alla vista, bensì di pura intenzionalità.

E tuttavia, al contempo, sono proprio le mani a disubbidire. Esistono racconti e film in cui ad animarsi o indemoniarsi sono gli occhi, i piedi, persino le orecchie, ma sono di gran lunga più numerosi i casi in cui le mani – unite al corpo o recise da esso – cominciano a funzionare per conto proprio, e quasi sempre con intenzioni omicide. Quando nei film d’orrore – da Le mani dell’altro a La casa – una parte del corpo s’indemonia, si tratta quasi sempre delle mani, controllate da una forza maligna, e non dei piedi, degli occhi o della bocca.

Nella maggior parte delle opere di fantasia, le mani agiscono contrapponendosi alle volizioni coscienti dell’individuo. Compiono l’omicidio che segretamente desidera, ma che la società o l’immagine di sé gli proibiscono di compiere. Ne La mano, il fumettista interpretato da Michael Caine scopre che il massacro inflitto a coloro che l’hanno offeso è opera della sua stessa mano recisa. In altre sceneggiature, capita che le mani eseguano i voleri di un terzo, ad esempio uno spirito, o il donatore della mano trapiantata chirurgicamente. In tutti i casi, esse manifestano una divisione, una scissione, e allo sfortunato protagonista tocca combattere contro il proprio corpo.

Ma scissioni del genere non si verificano nella vita di tutti i giorni? Mentre ci sforziamo per concentrarci su quello che la nostra compagna o il nostro amico ci dicono, le mani fremono dalla voglia di scrivere un sms, di controllare la posta, di pubblicare uno status su Facebook. Tutti si lamentano di essere troppo dipendenti dai telefoni, dai tablet, dagli iPad, come se le mani non potessero smettere di toccarli. La mano, la parte di noi che è simbolo dell’azione umana e della responsabilità personale, al contempo ci sfugge. Frozen, il film Disney – uno dei prodotti culturali di maggior successo di tutti i tempi –, descrive i dilemmi di una ragazza le cui mani fanno cose che lei non vuole facciano. Le mani di Elsa trasformano in ghiaccio tutto quel che toccano, e la storia racconta dei suoi sforzi per censurare, controllare e forse accettare questa parte di sé che, per parafrasare sant’Agostino, è “in lei più di lei stessa”[2].

*

[1] In inglese, I si scrive sempre con la lettera maiuscola. [N.d.T.]

[2] La frase cui l’autore si riferisce è «Tu autem eras interior intimo meo
et superior summo meo», «Tu [Dio] eri più dentro della mia intimità e
più in alto della mia altezza» (Confessioni, III, 6, 11). [N.d.T.]

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