“Il Vesuvio universale” di Maria Pace Ottieri è anzitutto è un poderoso reportage in cui l’autrice si mette quasi da parte perché il protagonista è lui…

E se il Vesuvio si risvegliasse? “Non ci sarà scampo per nessuno”, dicono i catastrofisti. “Potrebbe restarsene tranquillo e quieto per sempre”, ribattono i negazionisti-ottimisti. Nel frattempo, si va avanti a vivere. Sì, ma come? Maria Pace Ottieri, in una notte di dormiveglia, s’è posta una domanda semplice semplice: come si fa ad abitare in un posto che potrebbe saltare all’aria da un momento all’altro? Per rispondere è salita sul “formidabil monte / sterminator Vesevo” (copyright Giacomo Leopardi). Ha parlato con la gente, ha scavato nella storia e nel mito del vulcano attivo più pericoloso d’Europa. Ha girato bar e pizzerie, villette e casolari, negozi e industrie, conventi e antiche regge ora decadenti. Ha letto tutti i manuali di storia. Ne è nato un bel libro, Il Vesuvio universale (Einaudi), che anzitutto è un poderoso reportage in cui l’autrice si mette quasi da parte perché il protagonista è lui, o’ Vesuvio. Nessuno, beninteso, ammetterà mai di temerlo. Anche se i napoletani, il 16 dicembre del 1631, quando la lava era ormai alle porte della città, prelevarono in fretta e furia San Gennaro dal Duomo e lo portarono in processione fino al ponte dei Granili. San Gennaro fece il miracolo e il Vesuvio fermò l’avanzata.

Ma la quiete del vulcano è solo apparente. Persino ingannevole. Anche se dà l’impressione di essersi addormentato, potrebbe esplodere da un momento all’altro senza alcun preavviso o starsene tranquillo per chissà quanto tempo ancora, secoli o addirittura millenni. L’eruzione più famosa è forse quella del 79 d.C. con la morte di Plinio il Vecchio narrata da Plinio il Giovane. Poi, oltre un millennio dopo, quella del 1631 (che fece quattromila morti) e tre secoli a venire l’eruzione del marzo 1944, con circa dodicimila persone evacuate a Portici da San Sebastiano, Massa e Cercola. Nel 1984 le scosse furono cinquecento in 5 ore. Risultato: panico tra la popolazione e la pubblicazione sui giornali della bozza segreta di un “Piano di emergenza ed evacuazione nella ipotesi di evento eruttivo nella zona flegrea”. Scappare, sì. Ma dove? E da quale strada? Questo è il punto. Alle pendici del Vesuvio, sparsi in 25 paesi, in quella che è la “zona rossa”, vivono 700mila persone. Più altre cinquecentomila nei campi Flegrei, la “zona blu”. Infine, c’è Napoli con un milione di abitanti che ricade nella “zona gialla”. Quando Ottieri interpella i vesuviani su questo “Piano” c’è chi alza gli occhi al cielo, chi sorride, chi allarga le braccia, chi tenta di tranquillizzarsi. E come dargli torto? Immaginate più di settecentomila persone in preda al panico, e magari con qualche effetto personale, lanciati sull’unica via di fuga, la statale 268, che oggi si blocca se c’è un po’ più di traffico del normale.

Maria Pace Ottieri

Anche per questo prevale un senso di fatalismo collettivo. Della serie: se succede, moriremo tutti insieme, in pochi minuti. E quindi, chi si accorgerà di niente, chi piangerà, chi ricorderà?

Tra storia, costume, antropologia e cronaca, Ottieri – che da bambina, nel 1955, ha vissuto per qualche anno a Pozzuoli dove il padre lavorava per l’Olivetti – ha letteralmente vivisezionato il regno del Vesuvio. È andata a trovare i venditori di stoccafisso di Somma Vesuviana dove – l’avreste mai detto? – si lavora l’80% del baccalà e dello stoccafisso che si mangia in Italia. Il pesce arriva dall’Islanda, dove i vulcani vivi e vegeti sono una trentina.

I contadini di Somma scendevano al porto di Napoli e s’imbattevano nei bastimenti che arrivavano dal Nord con questi pesci rinsecchiti come bastoni. Giorgio Fortunio si entusiasmò a tal punto che lo portò alla moglie. “E che ci devo fare io co’ stu coso’?”, lo fulminò. Ora i Fortunio sono alla quarta generazione di baccalajuoli e hanno uno stabilimento all’avanguardia dove per entrare devi vestirti come i Ris. C’è Roberto De Simone, “’o Maestro Populare” e con lui i cantori, dalla voce possente e duttile come la lava: la “tamurriata”, le “fronne ’e limone”, un cantar di gola, “in falsetto, facendo tremolare la voce, come tremola al vento la foglia di limone”.

Un coro da tragedia greca dove ognuno dice la sua e viene a patti, come può, con la “fatal vetta”. Angelo Di Ruocco di Torre del Greco quasi la sfida: “A me piace saperlo vivo, guai se mi svegliassi una mattina e sentissi dire che il Vesuvio si è spento, non è più pericoloso, mi verrebbe l’angoscia”. Agostino Casillo, il giovane presidente dell’Ente Parco nazionale del Vesuvio, dice che si tratta di “fatalismo attivo”: “A chi mi dice ‘ma voi siete matti, come fate a vivere sul Vesuvio?’, io rispondo così: a Somma Vesuviana c’è quella villa bellissima costruita dopo l’eruzione del 79 d.C. e sepolta da quella di Pollena del 400 d.C.: i Romani non erano fessi, sapevano benissimo che il Vesuvio era un vulcano, ma era una terra talmente bella e fertile che ci sono tornati. Dobbiamo aspirare a un fatalismo attivo”.

Capita, in questo viaggio disperato e avvincente, di trovare voci fuori dal coro come quella di Silvestro Gallipoli, agronomo, che smonta, in parte, la narrazione della Terra dei fuochi, di una Campania, cioè, tutta inquinata dai rifiuti tossici sepolti dai clan nelle viscere della terra: “Su centoquarantamila ettari della piana campana”, dice, “i siti in cui si è riversato materiale tossico non superano il due per cento del territorio investigato (108.000 ettari, cioè 2.100 ettari di cui 920 a uso agricolo), e lo 0,1 per cento di tutta la Campania”.

Non mancano le devastazioni come alla villa delle Ginestre e a Torre del Greco dove Leopardi, tra il 1836 e il 1837, scrisse La ginestra e Il tramonto della luna, e ora è tutto un susseguirsi di case abusive che hanno distrutto l’antica bellezza del “miglio d’oro”, tra Portici e Pompei, un centinaio di ville, una meraviglia del mondo ora in sfacelo. Poi c’è l’urbanizzazione in gran parte legale, frutto di permessi, licenze edilizie e condoni concessi dai comuni dagli anni Cinquanta agli Ottanta dopo il terremoto dell’Irpinia quando bisognava pur dare un tetto agli sfollati e si pensò di darglielo sotto il Vesuvio. Più ancora delle sue cicliche e naturali intemperanze, è proprio questa proliferazione enorme di persone e costruzioni a rendere il vulcano il più pericoloso del mondo e un’eventuale evacuazione qualcosa di epocale e senza precedenti che potrebbe arrivare a coinvolgere fino a tre milioni di persone.

Tra Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano, Boscotrecase, Bosco Reale, Torre del Greco, Portici, Torre Annunziata, Anastasia, Pompei, Somma Vesuviana, Maria Pace Ottieri dà anche voce a un mondo dove la percezione del rischio legato al Vesuvio è sopraffatta dal peso quotidiano della mancanza di lavoro, di ospedali all’altezza, di scuole degne, dalla possibilità di muoversi rapidamente se non sui vagoni frusti e a scartamento ridotto della circumvesuviana, dell’onnipresenza della criminalità che nei primi anni Novanta del secolo scorso scopre che “i rifiuti sono oro” e i traffici d’immondizia tra Nord e Sud più redditizi della droga. Anche per questo, in fondo, ’n coppa ’o Vesuvio giocare a dadi con il destino non è poi la peggiore delle sventure. Tutto il resto, cioè la vita di ogni giorno, si affronta alla maniera del Sud: da un lato, un fatalismo che fa sprofondare nell’immobilismo e strozza ogni aspirazione al cambiamento; dall’altro, un attivismo che è un impasto di genialità, intelligenza e furbizia.

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