La casa editrice Marsilio avvia un progetto legato alle nuove voci letterarie provenienti dall’America latina, e parte con i racconti di Mariana Enriquez, che ibrida horror, suspense e ironia – Su ilLibraio.it un capitolo

Marsilio, casa editrice che negli ultimi anni ha puntato molto, e con successo, su thriller e noir scandinavi, apre all’America latina, e inizia puntando su un’autrice argentina, Mariana Enriquez, nata a Buenos Aires nel 1973. Enriquez, laureata in giornalismo, dirige il supplemento culturale del quotidiano argentino Página/12. I suoi racconti sono apparsi su prestigiose riviste internazionali, tra cui il New Yorker, Granta e McSweeney’s.

Le cose che abbiamo perso nel fuoco, la raccolta di racconti neri proposta ai lettori italiani da Marsilio, mette insieme realismo macabro, amore e sofferenza, superstizione e apatia, compassione e rimpianto. Le storie di Mariana Enriquez prendono forma in una Buenos Aires nera e crudele, e vengono direttamente dalle cronache dei suoi ghetti e dei quartieri equivoci. Sono storie che conducono il lettore in uno scenario all’apparenza familiare, che si rivela popolato da creature inquietanti.

Vicini che osservano a distanza, gente che sparisce, bambini assassini, donne che s’immolano per protesta. Quello di Mariana Enriquez è un mondo dove la realtà accoglie le componenti più bizzarre e indecifrabili della natura umana, e dove il mistero e la violenza convivono con la poesia.

Sullo sfondo di un’Argentina oscura e infestata dai fantasmi, ecco una serie di racconti in cui si mescolano horror, suspense e ironia.

Enriquez

Per gentile concessione della case editrice, pubblichiamo un estratto da uno dei racconti, tradotti da Fabio Cremonesi:

La prima fu la ragazza della metropolitana. C’era chi lo metteva in discussione, metteva in discussione le sue facoltà, i suoi poteri, la sua capacità di provocare incendi. Una cosa era sicura: la ragazza della metropolitana predicava soltanto sulle sei linee della città e con lei non c’era nessuno.

Eppure era impossibile da dimenticare. Aveva il volto e le braccia completamente sfigurati per un’ustione ampia, completa e profonda; spiegava quanto tempo ci aveva messo a guarire, i mesi di infezioni. Ospedale e dolori, con la bocca senza labbra e il naso ricostruito in modo pessimo; le restava un solo occhio, l’altro era un buco nella pelle, e tutta la faccia, la testa, il collo come una maschera marrone coperta di ragnatele. Sulla nuca le rimaneva una ciocca di capelli lunghi, cosa che sottolineava l’effetto maschera: era l’unica parte della testa che il fuoco non avesse toccato. Non aveva raggiunto neppure le mani, che erano scure e sempre un po’ sporche per il contatto con i soldi che elemosinava.
Il suo sistema era audace: saliva sul vagone e salutava i passeggeri con un bacio se non erano molti, se la maggior parte viaggiava seduta. Certi allontanavano la faccia con aria schifata, persino con un grido soffocato; altri accettavano il bacio per sentirsi a posto con se stessi; altri ancora si limitavano a farsi venire la pelle d’oca per il disgusto, e se lei se ne accorgeva, d’estate, quando poteva vedere i loro peli, accarezzava con dita sudicie i peletti spaventati e sorrideva con quella bocca che era uno squarcio. C’era addirittura chi scendeva dal vagone quando la vedeva salire: erano quelli che già conoscevano il suo sistema e non volevano il bacio di quella faccia orribile.

La ragazza della metropolitana per giunta indossava jeans attillati, camicie trasparenti, persino sandali con il tacco quando faceva caldo. Portava braccialetti e catenine al collo. Era inspiegabilmente offensivo che il suo corpo risultasse sensuale.

Quando chiedeva soldi, lo diceva molto chiaramente: non stava mettendo insieme il denaro per farsi delle plastiche, non aveva senso, non avrebbe mai riavuto una faccia normale, lo sapeva. Mendicava per i suoi gatti, l’affitto, il cibo – nessuno le offriva un lavoro con quella faccia, nemmeno posti in cui non occorreva vederla. E quando finiva di raccontare del tempo trascorso in ospedale, nominava sempre l’uomo che l’aveva bruciata: Juan Martín Pozzi, suo marito. Era sposata con lui da tre anni. Non avevano figli. Lui credeva che lei lo tradisse e aveva ragione: stava per lasciarlo. Per impedirglielo, l’aveva rovinata, se non poteva essere sua, non doveva essere di nessun altro. Mentre dormiva, le aveva sparso dell’alcol sul viso e aveva avvicinato l’accendino. Quando lei non poteva parlare, quando era all’ospedale e tutti si aspettavano che morisse, Pozzi aveva detto che si era bruciata da sola, durante un litigio si era rovesciato l’alcol e lei, ancora bagnata, si era accesa una sigaretta.

«E gli hanno creduto» diceva la ragazza della metropolitana sorridendo con la sua bocca priva di labbra, la sua bocca da rettile. «Persino mio padre gli ha creduto.»

Non appena aveva ripreso a parlare, ancora in ospedale, aveva raccontato la verità. Lui era finito in carcere.

Quando scendeva dal vagone, la gente non parlava della ragazza bruciata, ma il silenzio che rimaneva nel
treno, rotto solo dagli scossoni sulle rotaie, diceva che schifo, che paura, non me la dimenticherò mai, come si fa a vivere così.

(Continua in libreria…)

L’APPUNTAMENTO – L’autrice sarà ospite di Incroci di civiltà, Festival Internazionale di Letteratura a Venezia. L’incontro si terrà l’1 aprile alle ore 10 presso l’Auditorium Santa Margherita. Mariana Enriquez dialogherà con Fabio Cremonesi e Pietro Del Soldà.

nota: la foto di Mariana Enriquez è di Nora Lezano

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