“Materia – La fuga degli elementi” di Jacopo La Forgia, classe ’90, è un romanzo d’esordio sottilmente distopico, in cui l’acqua ha sommerso buona parte delle terre conosciute, gli animali si sono pressoché estinti e tutto lascia presagire la fine della vita sulla Terra… – Su ilLibraio.it un estratto

Jacopo La Forgia (romano, classe ’90), fotografo e autore di reportage e racconti, arriva nelle librerie con il suo romanzo d’esordio, Materia – La fuga degli elementi (effequ). Un libro onirico e a tratti catastrofico, che attraversa un mondo sottilmente distopico.

Elena, la protagonista, si sposta da una parte all’altra del mondo, vagando come se non avesse una meta precisa e fosse spinta, invece, da un destino oscuro. L’acqua ha sommerso buona parte delle terre conosciute, gli animali si sono pressoché estinti e tutto lascia presagire la fine della vita sul Pianeta. Ma qualcosa c’è ancora, e tutti gli esseri con cui avrà a che fare nei suoi viaggi hanno qualcosa da raccontare, esperienze che finiranno per intrecciarsi col destino di Elena, che in qualche modo sembra essere legato al destino dell’umanità e degli elementi.

Elena parte da Venezia, e a Venezia torna: ma dall’incendio di una fabbrica in Turchia a una Amsterdam dai tratti onirici, da un’improvvisa chiamata alle armi alla conversazione con l’ultimo elefante vivente rimasto, i suoi percorsi faranno affiorare i frammenti e i ricordi che narrano agli uomini la loro ultima storia.

Una sorta di moderna Odissea, scritta da un autore che dei viaggi per il mondo ha fatto la base del suo lavoro (La Forgia ha infatti pubblicato reportage sulla discarica di Nuova Delhi, sulla guerra civile in Kashmir e sul Delta del Danubio in Romania) e che ha anche scritto racconti che sono stati pubblicati sul Corriere della Sera e su riviste come CrapulaClub, Cadillac Magazine.

Materia Jacopo La Forgia

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it proponiamo un estratto

Congedo

Spostai lo sguardo a ovest, su un altro continente, dove le catastrofi naturali non erano ancora arrivate. I disastri lo avrebbero raggiunto presto, ma la previsione era talmente certa che ormai si preferiva ignorarla: al posto del terrore, come spesso accade, si sceglieva l’indifferenza.

Insieme agli equilibri ambientali cambiavano quelli economici, ma si trattava di processi senza connessione, accadevano solo nello stesso periodo. Molte nazioni povere diventavano ricche, e viceversa, e lentamente le migrazioni invece di dirigersi verso ovest cominciavano a muoversi nella direzione opposta. Andrea aveva lasciato il paese dov’era nato andando in cerca di fortuna dove un tempo c’era miseria e violenza. Avrei incontrato anche lui, in futuro. Al tempo lo osservai da lontano; in una fabbrica di marmo parlava al suo collega.

«L’ultimo origami che aveva fatto stava sul tavolo davanti a noi. Uno squalo. Le ho detto che era uno dei più belli. Stavamo sul divano, seduti uno accanto all’altra. Lei aveva le mani dietro la testa e mi guardava. Aveva un sorriso inquietante. Poi ha fatto un movimento rapido e mi ha baciato con foga. Non me l’aspettavo; ma è durato pochi secondi, subito dopo s’è voltata verso il camino e ha smosso la brace con un attizzatoio. Quando è tornata a girarsi verso di me aveva ancora quel sorriso. Ho pensato che volesse baciarmi di nuovo, invece mi ha appoggiato l’attizzatoio sul braccio».

«Eh?» fece Uygar in risposta.

«Già».

Da fuori arrivò il rumore di un tuono, tre lunghe vibrazioni. Andrea e Uygar vennero interrotti. Nei mesi che Andrea passò a lavorare laggiù non piovve mai. Durante le giornate il cielo si riempiva di nuvole e la sera guardavano i fulmini che illuminavano i boschi intorno al capannone, convinti che fossero il segno di una tempesta imminente che non arrivava mai.

«Ed era stata lei, a baciarmi» continuò Andrea dopo il tuono. «Le ero seduto accanto e la guardavo fare origami. Poi ha smesso, mi ha guardato e mi ha detto “credo che dovrei baciarti”. E l’ha fatto».

A quel punto Andrea indicò la cicatrice.

«La vedi, Uygar? Non mi hai mai chiesto niente».

«Senti, Andrea… non è che si noti così tanto, e poi sembra più una macchia o una voglia che una cicatrice».

Stavano seduti uno accanto all’altro su un tavolo di ferro. Al centro del capannone c’era la macchina per il taglio del marmo, alta fino al soffitto. In un angolo il grosso muletto che usavano per spostare i blocchi e le lastre. Andrea aveva appena terminato il suo ultimo giorno di lavoro. Bedriye, la segretaria, sarebbe arrivata a momenti col suo stipendio e la mattina seguente lui sarebbe andato via.

Come ogni sabato, stava raccontando a Uygar una storia del periodo trascorso nella capitale del suo paese. Ci aveva passato cinque anni, per il resto aveva vissuto quasi interamente in una piccola città sul mare, e a quanto pare lì ne aveva viste di tutti i colori.

«E tu a quel punto che hai fatto?» chiese Uygar.

«Che cosa vuoi che abbia fatto? Sono corso alla doccia e ho messo il braccio sotto l’acqua».

Andrea era un ragazzo piccolo, curvo di spalle. La magrezza lo rendeva sproporzionato, i movimenti delle rughe sul viso ne cambiavano continuamente l’aspetto, le gambe incurvate gli davano un’andatura disordinata. Portava sempre una salopette verde e una maglietta gialla da lavoro – ne aveva molte uguali. Barba, baffi e capelli erano tagliati sempre alla stessa lunghezza. Con la divisa immacolata e il volto curato voleva nascondere la goffaggine. Ma bastavano gli occhi, duri e precisi.

Quando raccontava, sembrava che tutto accadesse di nuovo davanti a lui. Non guardava l’interlocutore ma la sua storia. Ogni dettaglio era descritto in modo interessante, e nulla era inutile o di troppo.

Teneva le mani sulle ginocchia e la schiena in avanti, e si piegava all’indietro quando arrivava a un punto importante. Quella sera, per la prima volta, era lui il protagonista della sua storia.

«Sì, certo, ma dico: che hai fatto con lei? Perché ha provato ad ammazzarti?» incalzò Uygar.

Andrea stava raccontando di Elena, la ragazza che nella sua storia viveva da sola in una baracca nella periferia della capitale del suo paese. Era originaria della sua città e lui la conosceva fin da ragazzino. Da piccola viveva con la madre. Abitavano nello stesso isolato; lui ci giocava spesso, le insegnava a pescare e la portava sempre con sé nei giri in barca per la laguna.

Poi, quando Elena aveva compiuto sedici anni, lei e la madre si erano trasferite nella capitale, e non erano più tornate.

Andrea l’aveva rincontrata anni dopo, in un ristorante in cui lei lavorava come cameriera. Elena l’aveva aiutato, trovandogli una stanza e un lavoro da lavapiatti. Andrea s’innamorò subito, ma non glielo confessò mai per timore di un rifiuto o di rovinare quell’amicizia tra esuli.

Lei lasciava la baracca in cui viveva solo per andare al lavoro e quando pioveva. Il resto del tempo lo passava in casa a fare origami, di solito animali. Li accumulava in una cesta di vimini. Erano centinaia. Andava avanti per ore senza dire una parola, e Andrea la stava a guardare rapito dalla sua dedizione. Aveva uno sguardo intelligente e un collo bellissimo, pensava lui.

«Mi sono infilato nella doccia» continuò Andrea rivolto a Uygar «e ho messo la ferita sotto l’acqua fredda. Le ho urlato le cose peggiori che mi venivano in mente, ma mi ha proprio ignorato. Ha riattaccato a fare i suoi origami come se non fosse successo nulla. Poco dopo ha cominciato a piovere, e allora ha preso il fucile e ha infilato la porta. Io ho bestemmiato e le sono corso dietro».

La casa di Elena aveva un solo ambiente. Cucina, letto, bagno, tutto lì, senza muri divisori. In un angolo un camino di mattoni impilati. Qualche libro gettato a terra. Il fucile era sul tavolo di fronte al divano, accanto ai fogli per gli origami.

Andrea raccontò che la prima volta che era entrato nella stanza si era sentito mancare l’aria, come in montagna. Aveva immaginato che l’ossigeno fosse risucchiato nel collo dell’arma e il suo senso di realtà era diminuito.

Ogni volta che pioveva Elena impugnava il fucile, usciva, si metteva al volante del suo fuoristrada scassato e guidava verso le montagne a est della capitale, alla ricerca di un lupo. Da ragazzina i lupi le avevano ucciso il cane.

Proprio nel momento in cui Andrea raccontava del suo viaggio con Elena alla ricerca della bestia, il padrone dell’azienda entrò nel capannone e interruppe il racconto.

«Andrea, vieni nel mio ufficio» disse.

Andrea fu sorpreso, non si aspettava che sarebbe stato lui a dargli lo stipendio.

«Pensavi che ti avrei lasciato andare via così?»

«Ah, ok… saluto Uygar e arrivo».

«Ti aspetto nel mio ufficio».

Abbracciò il collega, che gli disse:

«A quanto pare non saprò mai la fine della storia di Elena».

«Non si può mai dire, magari te la racconterà qualcun altro».

(continua in libreria…)

©effequ 2019

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