“Il mestiere dell’aria che vibra” è il quello che Marco Tutino, uno dei maggiori compositori del panorama italiano contemporaneo, ha scelto per la propria vita. Nel suo primo libro racconta la passione per il proprio lavoro, la genesi delle sue opere e i segreti del palcoscenico – Su ilLibraio.it un capitolo

Il mestiere dell’aria che vibra (Ponte alle Grazie) è il mestiere che Marco Tutino – milanese, classe 1954, oggi uno dei maggiori compositori del panorama italiano contemporaneo – ha scelto per la propria vita. Da piccolo ascoltava Beethoven e Vivaldi in braccio al papà, da ragazzo ha amato i Beatles e i Rolling Stones (per non parlare di Lucio Battisti), e da giovane era indeciso tra fare il cantautore folk, l’attore brechtiano, il militante politico o il flautista. Ma la folgorazione è arrivata una sera dei primi anni Settanta quando, seduto in un posto della piccionaia della Scala, sente i congiurati di Un ballo in maschera sussurrargli i loro intenti malvagi, donandogli la più forte delle emozioni. È in quel momento che sceglie “mestiere” della sua vita, quello di far vibrare l’aria.

Nelle pagine della sua biografia Tutino racconta la passione per il proprio lavoro, la genesi delle sue opere e i segreti del palcoscenico. La sua storia di musicista e di sovrintendente poco avvezzo ai compromessi si intreccia con la storia nazionale, e nel contempo sfilano sullo sfondo le grandi opere del  repertorio lirico internazionale, complete di istruzioni per l’uso. Le sue opere – tra cui Pinocchio, Cyrano, La lupa, Il gatto con gli stivali, Vita, Senso, Le braciTwo women – sono state, infatti, eseguite nei più importanti teatri del mondo. E, tra le righe, affiora la danza gioiosa e leggera della creazione artistica, fatta di ispirazione e di artigianato, di rigore e di abbandono, di piccole, improvvise illuminazioni.

Oggi Tutino insegna composizione presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, e questo è il suo primo libro.

Il mestiere dell aria che vibra

Per gentile concessione dell’editore, proponiamo un estratto:

Prima

Ricordo con certezza cosa sia stato a spingermi definitivamente a scegliere la professione del musicista. Le opzioni che mi frullavano in testa, all’inizio degli anni Settanta, erano vagamente avventurose e poco concrete: lo scrittore, la rockstar, l’attore, il regista cinematografico… cose così, niente a che fare con il medico o l’avvocato. A quell’epoca il pragmatismo non andava molto di moda, e i giovani – giustamente – rincorrevano utopie, il futuro sembrandoci uno spazio ricolmo di possibilità indefinite ma affascinanti. È chiaro che parlo dei giovani della buona borghesia; gli altri non avevano certo né il tempo né il permesso di perdersi in queste fantasticherie.

Sta di fatto che da quando io possa ricordare, e cioè da circa il 1958, intorno ai quattro anni, la musica si era infilata nelle mie giornate dagli spiragli più disparati: in casa c’era un padre che adorava la musica classica e appena poteva mi proponeva, su vinile, Beethoven o Vivaldi, e un suo primo cugino, Niccolò Castiglioni, era uno dei compositori più noti e apprezzati della sua generazione. Io diventai presto un ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones (ancor di più Lucio Battisti) e tentai una spericolata carriera come cantautore folk, riuscendo persino a farmi produrre un 45 giri e un long playing dei quali mi vergogno tuttora. Carriera fortunatamente naufragata in una di quelle mezze balere della bassa lombarda quando, dopo un disastroso concerto, il mio “impresario” scappò con la cassa senza nemmeno lasciarmi i soldi per un taxi.

La mia adolescenza fu turbolenta e indisciplinata. Mi ero lasciato coinvolgere nella febbre del ’68, diventando la mascotte del movimento studentesco milanese e partecipando a ogni manifestazione più o meno tumultuosa con l’incoscienza tipica di quella stagione della vita. Feci in tempo a presenziare alle prime riunioni nelle quali si cominciava a percepire il cattivo odore della lotta armata; e quando vidi il cervello di Giannino Zibecchi, un giovane insegnante di educazione fisica, adagiato sul pavé di corso XXII marzo a Milano, decisi che non volevo più saperne di rivoluzioni e di lotte di classe. Ma non fu solo la violenza così estrema a farmi allontanare; piuttosto un senso crescente di estraneità e di noia profonda nel sentire ripetere all’infinito slogan sempre più privi di senso della realtà e di proposte costruttive. Avevo anche percorso l’Italia insieme a una compagnia teatrale, il Collettivo Bertolt Brecht, piuttosto scalcagnata, nella quale recitavo e suonavo la chitarra in spettacoli genericamente di protesta o in testi teatrali brechtiani quali La linea di condotta o Il cerchio di gesso del Caucaso; ma francamente non mi era sembrata una prospettiva di futuro entusiasmante.

Fu soltanto una sera di febbraio del 1971 a cena con mia madre in un ristorante di piazza San Babila, che la mia vita si divise in un prima e in un dopo, con una forza inattesa. Non che i nostri rapporti fossero idilliaci: in verità non parlavamo granché di cose personali. Ma immagino che ogni tanto le piacesse recitare il ruolo normativo, e quella volta lo interpretò molto bene.

Fu molto convincente e spietata nell’analisi di ciò che chiamava “dilettantismo”, praticamente tutto quello che avevo tentato fino ad allora, in opposizione a ciò che chiamava “mestiere”, esattamente ciò che avevo evitato di affrontare. La separazione tra le attività svolte per il proprio piacere e svago da quelle che in qualche modo avrebbero consentito il mio sostentamento stava tutta in quella parolina, “mestiere”. Non era solo un problema di soldi, e nemmeno una generica questione di dovere sociale: la faccenda si poneva in termini etici, deontologici. Un uomo che non possiede un mestiere è un uomo superficiale, destinato a vivere la vita senza conoscere e capire granché. Non importa che il mestiere sia molto remunerativo in termini economici, e nemmeno pienamente riconosciuto socialmente. Quello che conta è saper svolgere un’attività ai massimi livelli possibili, quelli che il tuo talento e la tua perseveranza ti consentiranno di raggiungere. Mi convinse. Far bene una cosa, anche se apparentemente non fondamentale per i miei simili, nella mia visione del mondo di allora era un’idea sufficientemente snob da poter essere presa in considerazione.

A questa parola, mestiere, sono rimasto fedele. La sua etimologia richiama con chiarezza i concetti di ruolo, necessità, esercizio di un’arte. Dunque l’artigianato, l’attenzione ai particolari, la cura. E il talento e l’abilità per esercitarli in qualsiasi campo: far bene il proprio mestiere, da quello più umile a quello più eclatante. Ho imparato via via ad apprezzare in egual misura un piatto abilmente cucinato come una piega perfetta di una moto in gara; un abito ben confezionato come una poesia di valore, un mobile ben costruito quanto un vino prodotto con sapienza. Cose fatte bene, nella quali si riconosce la qualità, l’attenzione ai dettagli e alle sfumature, e anche la tradizione e la cultura a loro sottesa, la storia che raccontano e che trasportano. All’opposto, provo un fastidio insopprimibile davanti alla genericità, alla sciatteria, al pressapochismo spesso rintracciabili in molte azioni umane. Come verso gli oggetti fatti in serie, piatti e senza vita. Attraverso l’esercizio accurato di un mestiere, ho faticosamente compreso come si potesse accedere ad alcuni dei segreti dell’esistenza, e che di lì sarebbe transitato un po’ di senso.


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Per questo, dopo quella cena, mi iscrissi al Conservatorio di Milano, nella classe di flauto di Marlaena Kessick, e poco dopo nella classe di composizione di Azio Corghi prima e Giacomo Manzoni poi. Sempre per questo smisi di suonare il flauto un anno dopo il diploma – capii che non sarei mai diventato un grande flautista – per dedicarmi soltanto alla composizione.

Ma, soprattutto, fu grazie a quell’idea suggerita da mia madre e impressa nel posto giusto del mio cervello che quando in una sera di lavoro del 1972 (vendevo libri per conto di Einaudi nell’ultimo foyer del Teatro alla Scala) decido casualmente di mettere per la prima volta la testa dentro la «piccionaia» e arrivo giusto in tempo per la scena dei congiurati del Ballo in Maschera di Verdi – direttore Gianandrea Gavazzeni, regia di Franco Zeffirelli, scenografia di Renzo Mongiardino. Cantano Lou Ann Wycoff, Margherita Guglielmi, Viorica Cortez, Plácido Domingo, Piero Cappuccilli, Luigi Roni –, la prima cosa che penso è: ma quanta gente ci vuole per fare un’opera? Conto settanta persone in orchestra, altrettante se non di più nel coro. Più i solisti in palcoscenico, circa sette quella volta. E poi immagino quante persone nascoste dietro le quinte a movimentare le scene, regolare le luci, suggerire, far entrare i cantanti, dare il via o fermare qualcosa. E quante sarte a vestirli, truccatrici a truccarli, calzolai a calzarli. E ancora non conoscevo il numero dei professionisti, in realtà molti di più di quelli che potevo immaginare allora, necessari per mandare avanti e organizzare lo spettacolo che in quel momento mi stava regalando la più forte emozione della mia vita; perché i congiurati che sussurravano i loro intenti malvagi percorrendo un campo di notte erano così veri, così perfetti e credibili, così sinistri e inquietanti nonostante stessero cantando, anzi, più veri del vero proprio perché cantavano, che quel piccolo miracolo di realissima finzione doveva essere – pensai – il mestiere più sofisticato e complesso che una mente umana potesse elaborare. E per edificare quel castello in aria, che in un attimo svanirà nel nulla, era necessario un alveare perfettamente coordinato di esseri umani. Allora non ho il minimo dubbio: quello sarebbe diventato il mio Mestiere. E prima o poi, avrebbero eseguito un’Opera scritta da me in quel Teatro, promesso. Avevo diciott’anni.

(Continua in libreria…)

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