94 anni, quasi 70 di carriera, più di 230 film, moltissimi dei quali hanno segnato la storia del cinema. Un ricordo di Michel Piccoli attraverso opere cult come “Il disprezzo” di Godard (con Brigitte Bardot), “Dillinger è morto” di Ferreri, “Il fantasma della libertà” di Buñuel e il profetico “Habemus papam” di Moretti

94 anni, quasi 70 di carriera, più di 230 film, moltissimi dei quali hanno segnato (sognato?) a fondo la storia del cinema d’autore europeo. Anche a scorrere a volo d’uccello la filmografia attoriale di Michel Piccoli, la cui morte il 12 maggio è stata resa pubblica ieri dall’amico Jiles Jacob (animatore e anima del Festival di Cannes, sospeso proprio questo maggio per pandemia), si attraversa, come in uno specchio, l’intera cinematografia d’un continente, lungo l’asse portante (tracciato anche dalle sue origini ticinesi) franco-italiano, con significative divagazioni greco-portoghesi. J’ai vécu dans mes rêves dichiara, senza tema di smentita, il titolo del libro-testamento (pubblicato da Grasset cinque anni fa), in forma d’intervista quasi epistolare con lo stesso Jacob. Come in un sogno. Come in su una pellicola infinita. Varrebbe, adattato, il motto/monito della passione e della necessità di Pina Bausch: act, act, act, otherwise we are lost.

Se il cinema, secondo l’abusata eppure geniale definizione di Jean Cocteau, è la morte al lavoro sul corpo dell’attore, su quello enigmatico e ricettivo di Piccoli si proiettano, elaborazione felice di una vita davanti alla macchina da presa, gli sguardi personali e indagatori di molti dei registi più acuti e originali: Renoir, Vecchiali, Melville, Vadim, Varda, Demy, Bava, Ferreri, Sautet, Chabrol, Bunuel, Petri, Corbucci, Scola, Cavani, Bellocchio, Costa-Gravas, Godard, Rivette, Resnais, Malle, Lelouch, Carax, Ruiz, Del Monte, De Oliveira, Angelopolous, Ioseliani, Moretti. Un cineforum che volesse ripercorrere con una qualche velleità esaustiva la presenza fantasmatica di questo non divo sul grande schermo, necessiterebbe di un annetto buono di proiezioni, per lasciare un minimo congruo spazio al dibattito (sì, il dibattito sì). Solo con i suoi film si potrebbe fotografare una traiettoria prospettica della Nouvelle Vague e molti dei suoi riverberi. Attraverso il reincarnarsi in immagini di questo attore-persona, ammiriamo un panorama complesso e sfaccettato del Novecento, un suo campionario antropologico, vagliato e vivisezionato da un’attore anticamaleontico, i cui segreti, dio o diavolo poco importa, risiedono nei dettagli, e in quel distacco partecipe che pare condensare l’ossimoro del suo carisma.

Qualsiasi scelta è/sarebbe arbitraria e parziale. Allora, in attesa di (ri)vedere uno a uno tutti i suoi film, ricordiamo solo sei frammenti di un percorso d’attore, cartoline dall’aldilà delle immagini filmiche (quando ancora le sale di mezzo mondo restano inaccessibili, templi del secolo scorso) che s’imprimono sulle retine e nella memoria con forza vivissima, confrontandosi non a caso, spesso e a fondo, con la morte:

Jean-Luc Godard, Il disprezzo (1963): lo scrittore-sceneggiatore che, regista Fritz Lang e produttore Jack Palance, cappello e libro in vasca da bagno, vive “totalmente, teneramente, tragicamente” il nudo inafferrabile di Brigitte Bardot, fino all’ultimo respiro, sulla scalinata di Villa Malaparte.

https://www.youtube.com/watch?v=ep1FdLjgUJY

Marco Ferreri, Dillinger è morto (1969): il designer industriale incastrato nel vuoto di senso di una vita non vita piccolo borghese, senza neppure un fascino discreto. Votato al suicidio, all’omicidio, allo scacco.

Luis Buñuel, Il fantasma della libertà (1967): in apparenza uno dei sei pi-atti mancati della grande non abbuffata bunuelliania: estasi di delitti, traiettorie sempre frustrate del desiderio. Caos e thanaos del nostro inconscio.

Jacques Rivette, La bella scontrosa (1991): il regista come ritrattista, spogliato di ogni alibi di fronte al nudo incredibilmente disarmante e casto di Emanuelle Beart.

Manoel de Oliveira, Ritorno a casa (2001): l’attore recita Ubu Roi sul palco mentre perde in un incidente tutta la famiglia tranne un piccolo nipote, e il lutto, così crudele e improvviso, si riverbera nella quotidianità silenziosa e antiretorica di un vecchio che recita Joyce.

Nanni Moretti, Habemus papam (2011): nella consapevolezza (speranza e malinconia) che nel mondo todo cambia, un vecchio, eletto papa, prende gradualmente consapevolezza della sua inadeguatezza e, ritirandosi, compie un gesto rivoluzionario, cristianamente originario. E profetico.

Basta davvero poco, per capire che Piccoli è un grande. Ma, per dirla con l’ultimo Resnais (inedito in Italia), in cui c’era anche lui nel Pantheon dei comédiens d’oltralpe: vous n’avez encore rien vu.

 

L’AUTORE: alla pagina dell’autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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