La serie tv “Mindhunter”, tratta dall’omonimo memoir, è una delle più acclamate della stagione su Netflix… ecco perché

Si dice che quando Charlize Theron posò sulla scrivania di David Fincher (regista, fra gli altri, di Seven e Zodiac) lo script di Mindhunter, lui abbia sbuffato qualcosa del tipo: “Ancora serial killer?”.

E si dice che lei gli abbia risposto: “Tu leggilo”.

Ed è così che si è avviata la produzione della serie televisiva Mindhunter (una delle più acclamate e viste di questa stagione su Netflix).

Cosa ha convinto il regista che non si trattava dell’ennesimo film o serie tv sui serial killer americani? Probabilmente, la stessa cosa che convince i lettori del libro da cui è tratta: il memoir omonimo scritto da John Douglas con Mark Olshaker. E cioè, che la qualità quasi ipnotica del libro (e della serie) non è data dalle gesta degli assassini seriali, che funzionano in realtà come motore immobile rispetto al meccanismo narrativo, ma dall’evoluzione del protagonista – John Douglas nel memoir, Holden Ford nella serie tv.

È una serie fortemente character-driven, imperniata su un personaggio che parte da un’intuizione puramente eidetica, di natura quasi epistemologica, e si ritrova a camminare con l’ego in precario equilibrio su una sottile, affilatissima lama di rasoio.

L’intuizione di Holden Ford / John Douglas oggi appare banale, quasi scontata, al pubblico che, dai tempi del Silenzio degli innocenti (in cui compare un personaggio, Jack Crawford, fortemente ispirato a Douglas), mastica profiling e terminologia correlata con dimestichezza, grazie a film e serie tv di grande popolarità.

Ma all’epoca è qualcosa di rivoluzionario. Ed è ben reso, nell’aria stralunata e allo stesso tempo limpida – di quella limpidezza che deriva dalla consapevolezza di aver avuto un’idea giusta – che mostra Holden Ford in quella frase che resta incompleta, nella prima puntata (non è uno spoiler). Infatti, qualcosa va orribilmente storto benché Ford abbia fatto tutto “secondo il manuale”, come gli dice il suo superiore cercando di tranquillizzarlo.

Ma se ho fatto tutto ‘secondo il manuale’ ed è comunque andato tutto male, allora…

Questo ‘non detto’ è in realtà esplicitato nel libro ed è semplice e dirompente allo stesso tempo: il manuale è sbagliato.

Ed è qui che – cosa molto interessante per chi lavora nel mondo dei libri – la faccenda si fa eminentemente linguistica. Perché la sfida di Ford / Douglas è quella di inventare un nuovo codice, che vada oltre il “by the book”. Una vera e propria lingua.

Quella lingua elusiva e contorta che parlano e incarnano i serial killer già catturati e imprigionati – e che Ford e il veterano Tench iniziano a intervistare. Un linguaggio le cui forme, strutture, significati e significanti assumono una specie di intelligibilità (che, in ultima analisi, si rivela predittiva) soltanto dentro la mente del killer.

Ford e Tench, nei loro interrogatori, tentano in realtà di aprire un dizionario – terrificante e abissale – che nessuno aveva mai voluto sfogliare prima. Cercano di apprendere un linguaggio che scava nelle origini della violenza a-personale di un omicida seriale. Ed è così che arrivano a coniare i termini, oggi arcinoti, di omicida organizzato e disorganizzato, e la stessa definizione di serial killer.

Ma… avete presente quando vi immergete nello studio di una lingua nuova e dopo un po’ iniziate perfino a sognare in quella lingua? La sostanza di un linguaggio non è asettica: è carne viva. O morta, come in questo caso.

E l’aspetto più affascinante di Mindhunter è proprio la progressiva invasione, il contagio, la conquista violenta – pur senza nessuna scena di violenza agita – che opera la mente dei serial killer nei confronti di quella, ingenuamente scientifica, di Ford. Su tutti, giganteggia (è il caso di dirlo) Edmund Kemper, e non è un caso: l’eloquio forbito, la capacità affabulativa, l’elevato grado di autoconsapevolezza rendono questo Kemper televisivo il personaggio più ‘mostruoso’ dai tempi del mostro cinematografico per eccellenza, Hannibal Lecter.

Con un asso nella manica in più: perché, a differenza del Silenzio degli innocenti, qui è tutto (o quasi) terribilmente vero.

Un p.s. mi è d’obbligo, a testimonianza di come la chiave di tutto sia il linguaggio. Diversi anni fa, molto prima del dibattito odierno sugli audiobook, nelle prigioni statunitensi fu lanciato un programma rieducativo per i detenuti. Consisteva nell’allestimento di piccole sale di registrazione in cui i reclusi stessi leggevano ad alta voce dei romanzi, creando così degli audiobook de facto. Uno dei più ferventi detenuti partecipanti al programma, nel carcere di Vacaville, in California, fu… Edmund Kemper.

Se cercate in rete, troverete un brevissimo file audio in cui Kemper legge l’incipit di Flowers in the Attic di Virginia Andrews. E potrei giurare, ma forse sono solo io, che all’inizio si lascia sfuggire una risatina.