“Mio fratello”, il nuovo libro di Daniel Pennac, vede come protagonista una delle persone più importanti della vita dello scrittore: Bernard, scomparso prematuramente. L’autore francese si cimenta con il monologo teatrale, scrivendo una riduzione del Bartleby di Melville, un personaggio che, proprio come sosteneva suo fratello, era in grado di creare “entropia” – L’approfondimento

“Il desiderio di portare in scena il Bartleby di Melville mi era venuto un giorno in cui pensavo a mio fratello Bernard”. Inizia così il nuovo libro di Daniel Pennac, uscito in Italia per Feltrinelli nella traduzione di di Yasmina Melaouah, che fin dal titolo, Mio fratello, annuncia di affidare il ruolo di protagonista a una delle persone più importanti della sua famiglia, Bernard, scomparso prematuramente.

Mio fratello

“Il figlio e fratello preferito in una famiglia di quattro maschi, poi il dirigente stimato a capo di una ventina di operai di cui si era preso la briga di imparare il mestiere” (p. 50), Bernard è anche stato padre di due figli adottivi e di uno nato morto, fino alla scoperta dalla malattia e alla sua scomparsa veloce, in seguito a complicanze operatorie. Dopo sedici mesi di telefonate a vuoto al suo vecchio numero, pensieri nostalgici e lacrime, Daniel Pennac decide di dedicarsi a uno degli omaggi che, certamente, suo fratello avrebbe apprezzato di più: cimentarsi con il teatro, e per la precisione scrivere una riduzione del Bartleby, un personaggio che, come sosteneva suo fratello, era in grado di creare ‘entropia’.

Ed ecco che alle pagine più autobiografiche – che mai cedono a sentimentalismi, ma solo a una pacata nostalgia –, si alternano i corsivi dell’adattamento teatrale, in cui lo stesso Pennac interpreta il notaio che osserva con progressivo sgomento il suo impiegato Bartleby. Opera rivoluzionaria, ma mille volte meno nota di Moby Dick, Bartleby è una sfida per varie ragioni: innanzitutto, Pennac riduce il testo di Melville a un monologo, e questo comporta una notevole padronanza della scena per avvincere il pubblico per un’ora e un quarto; inoltre, la trama è esilissima, si basa sugli inspiegabili rifiuti (i celeberrimi “I would prefer not to”, ovvero “preferirei di no”) dello scrivano di compiere le più semplici e scontate mansioni che gli spettano.

Ed è proprio qui, nell’enigmaticità del personaggio, che in qualche modo Pennac cala la sua realtà: anche Bernard, così diverso da lui, è rimasto a tratti impenetrabile. Un po’ come il pubblico, del resto: lontano dal palco e sconosciuto all’inizio dello spettacolo, poi via via si fonde col Pennac recitante. E così, inspiegabilmente, Bartleby tampona il dolore e la mancanza del fratello, complice il fatto che “Melville è come il pane. È nutriente senza essere pesante. È pieno di senso e di silenzio. A volte Melville è di una lentezza lavica. È lento a riempire gli anfratti, ma poi li riempie tutti. Anche gli interstizi. Ero pieno” (p. 45).

Eppure questo non basta. Dalle pagine più rassicuranti e, potremmo azzardare, monotonali del monologo, si torna alla vita di Pennac. È nello strappo stilistico tra le due parti che si condensa tutto il dolore: i flashback sulle cause di morte del fratello, apparentemente nudi e senza orpelli aggettivali, cozzano con l’ironia di Bernard, lucidissimo osservatore del mondo fino alla fine (“Durante tutta la nostra vita mi sono nutrito del suo umorismo”, in cui si nota nel “nostra” l’elemento di condivisione, ma nel “suo” il ruolo di comprimario di Daniel). Non è raro che Pennac cercasse di imitare il fratello durante la vita, pur riconoscendo in lui un modello decisamente più alto, ma è incredibile come dopo la morte, nell’elaborazione del lutto, lo scrittore riproduca più volte gesti identici, o gli sembri di vedere per strada Bernard. Per non lasciarlo andare. Per non perderlo del tutto.

Eppure il potere catartico del teatro si vede, sotto forma di quel monologo che Pennac ha mandato a memoria e che sente sempre più suo. E anche le pagine che teniamo tra le dita testimoniano certamente l’amore, ma con il loro equilibrio formale rispecchiano la rassegnazione. Non resta ormai che considerare passato chi riluce nei nostri ricordi e nelle foto che teniamo a portata di sguardo.

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