“Scene (catastrofiche) da un matrimonio. E se l’ultima mission impossible fosse, sospesi ugualmente sull’abisso, non tanto di natura geopolitica, ma innanzitutto di ordine sentimentale?”: al cinema “Mission: Impossible – Fallout” – La recensione de ilLibraio.it

Scene (catastrofiche) da un matrimonio. E se l’ultima mission impossible fosse, sospesi ugualmente sull’abisso, non tanto di natura geopolitica, ma innanzitutto di ordine sentimentale? L’apocalisse, distruzione e rivelazione, si dà inizialmente in forma di immagini di sogno, che non tardano però a tramutarsi in prospettive da incubo: una coppia in un Paradiso cartolinesco sospeso e lucente che, ascoltando estasiata l’officiante pronunciare le formule canoniche del rito nuziale, si ritrova improvvisamente a sentire tutto ribaltato, ogni promessa e più rosea aspettativa rovesciate nel loro esatto contrario, come in una maledizione implacabile; e poi la cerimonia viene investita dalla potenza annichilente di un’onda d’urto, esplosione devastante e mortifera che porta via tutto. Ethan Hunt si risveglia solo, al buio, coi sudori freddi.

Il nucleo esplosivo enunciato da questo prologo, una mise en abyme onirica un tantino spiazzante per un film fatto almeno in superficie (e piuttosto bene) di inseguimenti mozzafiato, combattimenti corpo a corpo e deflagrazioni laceranti, sembra dunque risiedere nella questione, anch’essa però decisamente infiammabile (mozzafiato, corpo a corpo e lacerante), della relazione di coppia: il coronamento dell’amore coniugale coincide forse non caso con la fine del mondo. E il mondo, come sappiamo bene, in questa formula dell’action movie inaugurata nel 1996 e giunta oramai alla sua sesta declinazione, è sempre sotto minaccia del cattivo di turno, la cui ombra mefistofelica qui risiede in primo luogo nell’agitato inconscio del protagonista e nei meandri delle sue vicissitudini amorose, sembra suggerirci questo incipit. Fallout è dunque sì, letteralmente, la “ricaduta sulla superficie terrestre di materiale radioattivo prodotto da esplosioni termonucleari”, quella trinità di sfere radioattive pronte a minacciare buona parte del pianeta (spettro dei fondamentalismi di cui ogni monoteismo rischia a un tempo di essere vittima e ostaggio), ma potrebbe anche riferirsi a quella particolare (ri)caduta amorosa (to fall in love) che ogni pulsione monogamica, con la sua forza assoluta, esclusiva e spiraliforme, può portare nel suo nucleo. Non è la predilezione non negoziabile per l’oggetto amato che minaccia da sempre, tallone d’Achille e vera kryptonite, di distrarre l’eroe dal salvataggio del mondo, rappresentando il suo lato debole, il suo volto ricattabile? Non rischia l’innamorato di preferire il singolo all’Umanità, di voler salvare il particolare a discapito dell’Universale, di essere fedele sempre alla persona e non più alla Causa? Un eroe che, non a caso, perde fin dall’inizio, nella cavernosa e oscura Berlino, la proverbiale valigetta con le testate nucleari (ma dove ha la testa?), proprio per voler salvare l’amico fraterno (dove invece lo porta il cuore), quest’ultimo fra l’altro custode e messaggero segreto di quella re(l)azione monogamica che minaccia l’assetto invincibile dell’eroe, e alla quale Ethan ha apparentemente rinunciato in nome della missione sociale del team: salvare il mondo, per l’appunto.

Non pare dunque l’età, quei 56 anni portati ancora con baldanza atletica sfacciata (al limite dell’impossibile) da Tom Cruise, che in strombazzata forma fisica avrebbe rifiutato orgoglioso gli stuntmen in tutte le scene più perigliose, a costituire l’handicap di questo novello Ulisse (il mandato della missione è racchiuso non per niente in una finta copia dell’Odissea), ma in quella Penelope che lo aspetta, tessendo la tela umanitaria, cucendo le ferite del mondo anche lei, a modo suo, da buon medico senza frontiere, in un altrove (il Kashmir) dove tutti i nodi non possono che infine (leggero spoiler) venire al pettine.

Se qualche motore s’inceppa, qualche incertezza e qualche piccola défaillance e leggero disorientamento pongono pure qualche modesto intralcio all’attempato eppure immarcescibile primo attore, si annida in realtà nello spettro coniugale (nel moto amoroso e non certo nella rumorosa moto) il suo vero limite profondo (ma forse anche l’inattesa via di salvezza), come ben possiamo leggere fra le – poche – pieghe dello sguardo self-confident e leggermente tirato di Tom Cruise. E che nel matrimonio si annidasse qualche inconveniente sortilegio, lo spettatore attento, lo sospettava, almeno da Eyes Wide Shut in poi.

Ecco che la centralità di Parigi, spazio dell’immaginario romantico per eccellenza, sembra una scelta deliberata per raccontare il luogo attraverso il quale la passione, dalle correnti della Senna, torna a galla. E dopo una scena nei bagni del Grand Palais che occhieggia ironica alle voci di omosessualità sull’attore (forse solo per giocosamente smentirle), è attraverso diverse figure femminili intermedie (la collega da sempre innamorata, l’avversaria subdola e seduttrice, la poliziotta ferita e da soccorrere) che Eros torna a (im)mischiarsi nella vita di Hunt(er), dedito alla consueta corsa contro il tempo e alla caccia del villain di turno. E la ville lumiére, in una topografia sincretica tanto reinventata quanto estremamente efficace, riporta, fra i fuochi d’artificio dell’artiglieria, i vicoli angusti del Marais, le prospettive regali del Palais Royal, le gallerie nascoste del Canal St Martin, i quais del lungo Senna e il traffico circolare dell’Arco di Trionfo, quella pulsione profonda a nuova, deflagrante luce.

Per Londra poi continua questo percorso all’illuminazione, che sfiora anche un funerale, mettendo il protagonista in imbarazzo al centro di un’altra cerimonia formale che sembra, oltre che un ulteriore sottolineatura scherzosa della dimensione mortale del protagonista, un segno ulteriore del legame indissolubile di amore e morte evocato da principio.

Intendiamoci, questo capitolo della saga rispetta tutti i crismi della serie, in termini di azione, ritmo, equilibrio fra gioco e coinvolgimento, macchina di effetti speciali e divertimento puramente cinetico-coreografico-adrenalinico, ma forse questa sottotraccia che racconta lo stretto legame che intercorre fra debolezza sentimentale e dilemma etico del protagonista è una fil rouge meno pretestuoso di quanto non sembri, utile a leggere questo nuovo capitolo. Per la seconda volta (per un brand che solitamente cambia regista ogni volta) diretto da Christopher McQuarrie (lo sceneggiatore di quel gioiellino di scrittura che fu I soliti sospetti di Bryan Singer), ecco che l’ennesimo blockbuster, per quanto costruito ad arte, dice qualcosa di più, e di più profondo del suo marchingegno ludico. Potremmo dire: finché nuovo sequel non vi s(e)pari.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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