“Molto mossi gli altri mari” di Francesco Longo racconta una struggente storia d’amore fatta di silenzi – Su ilLibraio.it un estratto

Quando la radio annuncia l’arrivo di una tempesta anomala che si abbatterà sulla costa, nella Baia di Santa Virginia, i ragazzi che hanno passato lì tutte le estati della loro vita tornano per cavalcare le onde epiche che hanno sempre invocato. Michele, l’unico a essere nato a Santa Virginia, oltre all’allerta meteo riceve la notizia che Micol si sta per sposare.

Lei è la ragazza riccia, elegante e inafferrabile che ha conosciuto tanti anni prima durante un bagno di fine stagione ed è anche la ragazza che Michele ha atteso e sognato, giorno e notte per anni, finché non ha fatto di tutto per dimenticarla. I due ragazzi sono sempre stati sul punto di dirsi qualcosa, ma non ne hanno mai avuto l’occasione, perché sempre separati dall’arrivo di settembre.

Lui trascorre gli inverni a letto con lunghe febbri, aggiustando biciclette con il padre, osservando la luna con il telescopio, immaginando lo sbarco degli alieni, incatenato allo splendore del luogo da cui non vuole allontanarsi. Intimidito, reticente, ultimo dei romantici, diventa l’unico punto fermo del gruppo di ragazzi benestanti e abbronzati che vanno e vengono tra Roma e le loro ville al mare. È amico perfino di Guido, l’eccentrico leader della comitiva, che gli donerà la sua prima tavola da surf.

Molto mossi gli altri mari (Bollati Boringhieri) è il primo romanzo di Francesco Longo, romano, classe ’78. Un libro di rimpianti e attese, che racconta la nostalgia e una storia d’amore fatta solo di silenzi, cresciuta sullo sfondo di lunghe estati passate tra gli annaffiamenti automatici dei giardini, giri in canoa e bagni in piscina.

Longo (nella foto di Giulia Natalia Comito, ndr), che insieme a Christian Raimo, Francesco Pacifico e Nicola Lagioia è autore del romanzo collettivo 2005 dopo Cristo (Einaudi), pubblicato sotto lo pseudonimo di Babette Factory, ha già pubblicato il reportage narrativo Il mare di pietra (Laterza, 2009).

Per gentile concessione dell’editore ilLibraio.it pubblica un estratto:

Per anni la vita della Baia trascorse sotto una luce piatta, come se il sole fosse rimasto immobile nel cielo a proiettare le ombre delle sei di pomeriggio. D’inverno i ragazzi preparavano esami per l’università e si facevano crescere la barba. Ad aprile, con le barbe lunghe, svuotavano i portabagagli carichi di spesa fatta lungo la strada nelle pescherie e nei negozi di formaggi locali, e organizzavano pranzi nei giardini con addosso giacche a vento leggere. Di notte, per scacciare l’umidità scaldavano le ville con stufe a cherosene e accendevano fuochi nei caminetti. Dai pavimenti delle cucine spazzavano gli aghi di pino sui mattonati e dai mattonati li scalciavano nel prato incolto. Al sole della mattina sottolineavano manuali di diritto o immunologia seduti contro le querce, poi mettevano a cuocere hamburger sulla brace mentre il Cicogna discettava di un corso sulla Repubblica di Platone. Dopo pranzo, si addormentavano sulle sedie a sdraio con il viso rivolto verso il sole. Appena il cielo si adombrava preparavano cocktail a base di gin o vodka, anche se a volte i primi Bloody Mary circolavano già a mezzogiorno. Invitavano spesso anche me. Entravo nel giardino di Guido con una bottiglia di vino di un vigneto di zona. Durante quei pranzi, capitava che uno di loro chiedesse come sarebbe stato avere un figlio o come sarebbe stato sposarsi. In risposta, dall’altra parte del giardino, o del tavolo, qualcuno lanciava dei cubetti di ghiaccio, nessuno voleva parlare di futuro. Tornavamo sempre indietro a ricordare le vecchie estati, a ripensare a quanto fosse stato leggendario un falò, una frase, una gita in barca. La volta in cui il Cicogna aveva riso per un’ora e avevamo dovuto prenderlo a schiaffi per farlo smettere. La volta in cui sulla spiaggia avevamo riconosciuto il vomito di Margherita della notte precedente.

Con gli occhiali da sole sul naso e i piedi nudi appoggiati sui mocassini, si preparavano a diventare cardiologi di reparto negli ospedali, notai con le targhe di ottone fuori dalla stanza, avvocati di studi rinomati. I primi weekend di maggio, con lo stomaco gonfio di bistecche al sangue, lattuga e cipolle, si stendevano in spiaggia, quando la stagione non era ancora pronta. Guido si tuffava in acqua, sempre. Capitava che Silvia o Margherita portassero qualche amico, o fidanzati con basette folte, ragazzi che le facevano diventare viola a forza di doppi sensi. A volte arrivavano tutti insieme per festeggiare un compleanno e si passavano da labbra a labbra bottiglie di champagne e qualcuno tagliava sformati di pesce spada già cucinati o una torta alle ciliegie; altre volte venivano senza un motivo preciso, giusto per prendere ossigeno e una prima abbronzatura. Gabriele si presentava sempre con l’armonica a bocca e qualcuno scaricava dal portabagagli una chitarra o addirittura i pezzi di una batteria. Avevano cominciato a suonare in qualche locale per gioco, e per gioco suonavano anche nei prati irsuti delle case della Baia, spesso lungo il bordo della piscina vuota della villa di Guido, che di solito arrivava per primo con Silvia, già il giovedì sera. Una volta vennero per dare l’addio a un loro amico che si trasferiva a Berlino. Micol non veniva mai, e di lei non parlava più nessuno.

La grande attrazione di quegli anni, il motore di tutto, fu il surf. Non tutti, solo alcuni persero la testa per le onde. Guido mi telefonava con giorni d’anticipo annunciandomi le mareggiate. Quasi sempre a mezzanotte. «È quel tuo amico Guido» sussurrava mia madre passandomi il telefono.

«C’è già vento lì?» chiedeva.

«Qualcosa, dal pomeriggio. Tira da dietro al promontorio».

«Le previsioni danno mare domani e dopodomani. Qui diluvia».

«Vi aspetto».

«Ho una tavola nuova. Scalpita, la dobbiamo far sfogare».

La voce era sempre concitata, il tono profetico. «Vedrai che ci saranno le onde giuste. Un bel mare potente».

(continua in libreria…)

 

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