Su ilLibraio.it una riflessione dedicata a Moonlight, film vincitore agli Oscar, e al suo ritmo potente e inattuale. All’inizio dell’era Trump, Barry Jenkins offre uno sguardo personale, lirico e fisico, sul mondo di oggi

Spente le luci sulla cerimonia degli Oscar che sarà ricordata per l’errore di attribuzione che ha visto proclamare La la land vincitore, togliendo per alcuni minuti il podio di miglior film a Moonlight, vale forse la pena di fermarsi a riflettere, in tempi di frenesia da Twitter e di trionfo delle post-verità (e proprio a causa di un tweet di troppo pare che qualcuno si sia distratto consentendo la clamorosa gaffe delle buste), sul ritmo potente e inattuale che ci regala la pellicola di Barry Jenkins (regista e  sceneggiatore) e sullo sguardo personale, lirico e fisico, sul mondo che ci consegna il film premiato con il massimo riconoscimento quest’anno dall’industria hollywoodiana, fieramente schierata in assetto completo anti-Trump al Dolby Theatre di Los Angeles.

Ché sul tramonto della presidenza Obama e con il paventato ergersi di nuove mura, non solo viene dato un riconoscimento alla storia di formazione di un ragazzino di colore, originario del quartiere di Liberty City, alla travagliata scoperta della sua identità, sociale e sessuale, nel ghetto di Miami (memento della questione razziale e della predestinazione sociale che ancora dominano fortemente la società americana), ma trionfa un racconto delicato e sapientemente melodrammatico di superamento delle barriere (in primis interiori), capace di un passo lento, ponderato, quasi anacronistico (quello delle emozioni più profonde). Jenkins è in grado di raccontare la periferia dell’impero rifuggendo stilemi narrativi consunti e facili slogan, lasciando parlare e respirare una storia di riscatto, non imprigionandola in schemi sociologici e ideologici semplificatori, preservando la forza universale di una rivelazione intima.

Moonlight è un dramma di formazione e d’amore in tre atti, tratto da un lavoro teatrale di Tarell Alvin McCraney (giustamente premiata la sceneggiatura non originale). Descrive con essenzialità, poesia e penetrante precisione, per microepisodi significativi, l’evoluzione del volto di little-Chiron-black (la bellissima locandina tripartita), incarnato da tre attori scelti alla perfezione per descrivere questo bambino-ragazzino-adulto che, per sfuggire a un contesto che giudica la sua silenziosa diversità una forma imperdonabile di debolezza, si rifugia nel buco nero e solitario dell’ombra e del mutismo, cedendo poi all’esplosione violenta, e inaugurando la costruzione pervicace di una corazza muscolare da indossare come fosse l’abito monacale di una vocazione alla penitenza, in cui la difesa dal mondo è al tempo stesso la rinuncia al mondo. Indossare una maschera di metallo e di ghiaccio può forse servire per un po’, ma non per sempre, a lenire le ferite dell’animo e proteggersi dai pugni dell’esistenza.

In un film in cui l’umanità – dalla madre tossica e inadeguata al possibile padre putativo che però spaccia, dalle istituzioni impotenti ai compagni di scuola crudeli – pare prevalentemente corrotta e distratta, non all’altezza o del tutto assente, spesso carente, raramente accogliente e al momento giusto traditrice, declinando con evidenza tutti i suoi limiti, gli elementi naturali (acqua, terra, fuoco e aria, in forma di oceano, sabbia, fumo e cielo notturno) come i corpi, con la loro carica ineludibile erotica, di fame e di violenza, sembrano allora farsi strada come un linguaggio di verità sotterraneo ma molto più diretto e forte di ogni possibile parola, nome o nomignolo, insulto o etichetta, perché a un certo punto “sei solo tu a decidere quello che sarai”, ed è attraverso il contatto – lo sguardo, la cura, il bacio, la carezza, il sesso, il cibo, l’abbandono – che questo orfano di padre con una madre perduta, che non sa mai bene chi è e che cosa può e sa dire, rinviene, in un mondo ostile e frustrante, l’orizzonte assoluto, potente e unico dell’incontro con l’altro, un luogo utopico eppure concreto di conoscenza e riconoscimento, per cui vale anche attendere una vita intera.

In un mondo incerto, frustrante e punitivo, di perpetua lotta, il nucleo più forte dell’identità risiede, sembra dirci Moonlight, nella possibilità di conservare una zona segreta di dedizione assoluta, concentrata nella battuta ultima. Poter dire infine: “tu sei l’unico che mi abbia mai toccato” è una dichiarazione d’amore bellissima che esprime senza soluzione di continuità anima e corpo, suggellata dall’abbraccio della luce notturna che dona al corpo nero la magia malinconica del blu, illuminante e oscuro potere dell’unicità di ognuno di noi. La notte dell’esistenza è rischiarata, forse trasfigurata, dal chiarore riflesso della luna, un luogo in cui è infine possibile dire e sentire ciò che conta.

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