In questa pandemia in cui si muore soli e lontano da tutti, la pietas non è venuta meno grazie all’ardire di uomini e donne, dai sanitari ai cappellani che come quell’uomo sul Calvario, andando oltre il proprio dovere d’ufficio, si fanno avanti coraggiosamente per curare, consolare, accarezzare. E dare dignità ai morti

È il crepuscolo di un venerdì di primavera tra il 30 e il 33. Tutto si svolge in gran fretta perché incombe Shabbat. E poi, non è il caso di perdere altro tempo con quel predicatore ambulante venuto dalla Galilea e ora condannato al supplizio infamante degli schiavi. Anche l’ultimo atto d’ignominia avviene in pochi minuti. Prima di essere inchiodato sulla croce, il condannato Gesù di Nazareth, autoproclamatosi “Re dei Giudei” (così recita il cartiglio con la motivazione della condanna), viene spogliato delle vesti. La veste conferisce all’uomo dignità, indica la sua posizione sociale, gli dà il suo posto nella società, lo fa essere qualcuno. Essere spogliato in pubblico significa non essere più nessuno.

Ora più che mai il condannato è un reietto da additare al pubblico ludibrio. Si aggiunge oltraggio a oltraggio: la veste inzuppata di sangue e sudore i soldati se la giocano a dadi, in una macabra scommessa. Il destino di quell’uomo, colpito con la lancia al costato per costatarne la morte, è la fossa comune. Nessuna sepoltura, nessun conforto, nessun atto di pietas. Sarebbe scandaloso, del resto, per un condannato alla pena capitale. Ecco però che a un certo punto sulla scena compare un personaggio, Giuseppe di Arimatèa, “persona buona e giusta” secondo Luca, “che aspettava il regno di Dio”, scrive Matteo. Ha visto com’è morto quell’uomo del quale, si mormora, è un seguace segreto.

Giuseppe chiede udienza al governatore romano Ponzio Pilato per impedire che la salma del rabbì di Nazareth finisca nella fossa comune. Qualche ora prima, essendo uno dei settanta membri del Sinedrio, il consiglio superiore politico-religioso del giudaismo di allora, non aveva esitato a votare contro quando il consesso, durante l’assise processuale, aveva condannato a morte Gesù. Pilato concede il nullaosta. Luca annota con prosa asciutta: “Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto”. Marco, nel riferire l’episodio, aggiunge un avverbio: “Andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù”. Giovanni è l’unico evangelista che, accanto a Giuseppe di Arimatèa, colloca anche Nicodèmo, “quello che in precedenza era andato da lui di notte” per dire che “portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura”.

Su quello sperone roccioso della periferia di Gerusalemme chiamato “Golgota”, in aramaico “cranio”, ribattezzato “Calvario” dai Romani, irrompe l’imprevisto. Nulla lasciava presagire quel gesto. Avvolto nel lenzuolo funerario di lino, la “sindone”, il corpo crocifisso e straziato di Gesù scivola lentamente nelle mani pietose e amorose di Giuseppe di Arimatèa e poi nel sepolcro scavato nella roccia. Quel gesto attutisce la solitudine della morte. I discepoli del condannato, infatti, erano fuggiti via tutti.

Morire soli, senza nessuno accanto. Senza il conforto di una carezza o di una preghiera. Senza il pianto di un familiare. Morire implorando un medico o un infermiere a fare l’ultima chiamata sul cellulare per dire addio ai propri familiari che aspettano a casa mentre il fiato manca e l’ossigeno non basta più. Muoiono così, nei nostri ospedali, i contagiati da coronavirus. Abbiamo imparato a conoscerla l’agonia e la morte in solitudine, ad abituarci persino. I morti sono diventati numeri nella conta del bollettino snocciolato, ogni sera, in diretta tv. La morte è diventata seriale, solitaria, pura contabilità, questione di statistica che noi scrutiamo ansiosamente per capire quando potremo tornare alla normalità. Siamo nella condizione, tremenda, di non poter esercitare la compassione perché la compassione prevede una vicinanza fisica e materiale che ci è impedita, così come è impedito il rituale per i morti.

Intanto a Bergamo i forni crematori ardono senza sosta, notte e giorno. E non basta perché i feretri vengono portati fuori regione per essere cremati. La sfilata di bare portate via dai mezzi dell’esercito ha ridestato l’Italia. Chi era “fuggito”, magari a intonare slogan banali sui balconi, si è ammutolito. Sui social tracima il dolore di chi ha perso un padre, una madre, un fratello, una sorella, un amico subendo l’oltraggio di non potergli dire addio, non poter celebrare un funerale, non poter lavare il corpo del proprio amato prima dell’irrigidimento cadaverico, non poterlo avvolgere, come Giuseppe di Arimatèa, nel lenzuolo funebre che conferisce dignità alla persona perché ci ricorda che il nostro corpo, pur straziato e capace anche di compiere il male, è sacro. Tutta la civiltà umana si fonda su questo. E non è un caso che nel Medioevo, durante l’infuriare della peste, sorsero le Confraternite della Buona Morte che andavano per le strade a raccogliere i cadaveri degli appestati abbandonati e dare loro sepoltura. Seppellire i morti è una delle sette opere di misericordia corporale prescritte dalla Chiesa cattolica.

In un ospedale di Bergamo era morto un anziano sacerdote e il cappellano aveva portato la stola per farla indossare. L’addetto alle pompe funebri ha allargato le braccia: “Abbiamo già sigillato tutto, non c’è tempo e il rischio del contagio è troppo alto”. Chi muore affetto da coronavirus non viene vestito per ordine tassativo dell’autorità sanitaria. Viene avvolto in un telo imbevuto di disinfettante e sigillato in doppia cassa. Tutti gli effetti personali bruciati. Non c’è tempo, appunto. La crudeltà del virus e l’enormità dei numeri hanno spazzato via, almeno apparentemente, ogni atto di pietas. “Il lavoro di onoranza funebre oggi non è più onoranza”, ha spiegato un addetto a Il Post, «ormai si onorano le salme attraverso piccoli gesti, c’è chi chiede di recuperare un anello, chi chiede di fare, se possibile, una fotografia alla bara per vedere il volto del caro defunto».

Eppure, anche in questa pandemia, il gesto di Giuseppe di Arimatèa non è venuto meno. Il contagio ha reso impossibile ogni contatto ma nelle corsie degli ospedali, nelle case, nei cimiteri deserti le vittime del coronavirus ricevono il conforto di una carezza che rende meno amaro l’addio.

Il gesto di Giuseppe di Arimatèa rivive nei cappellani ospedalieri che a rischio di contagiarsi benedicono, pregano, assolvono dai peccati, ungono (a distanza) i corpi dei malati e confortano chi muore. Il gesto di Giuseppe di Arimatèa rivive nei medici e negli infermieri che chiamano su WhatsApp i familiari dei pazienti, soprattutto quelli anziani, i più isolati. Alcuni sanitari, a Bergamo, hanno ricevuto l’incarico dal vescovo di benedire gli ammalati, soprattutto quelli in pericolo di vita, e recitare con loro una preghiera in assenza dei cappellani finiti in quarantena.

Il gesto di Giuseppe di Arimatèa rivive nell’atto di pietas compiuto da Flavia Musco, medico all’ospedale di Melzo: un anziano paziente le aveva chiesto notizie della moglie e la dottoressa dopo averla rintracciata, ricoverata nello stesso ospedale, l’ha messa nella stanza accanto al marito dove si era liberato un posto.

Il gesto di Giuseppe di Arimatèa continua a Seriate dove il parroco, don Mario Carminati, ha aperto la sua chiesa per accogliere le salme dei defunti prima della sepoltura: “Facciamo per tutti una preghiera e una benedizione”, racconta, “perché vogliamo far sapere alle famiglie delle vittime che c’è qualcuno che prega per loro, che non sono abbandonati, che qui sono già accolti nella casa del Padre. Molte famiglie vedono uscire in ambulanza il proprio congiunto e se non ce la fa non lo rivedono più, nel senso letterale del termine. Gli viene riconsegnato chiuso in una cassa. Per noi è importante che la famiglia sappia che almeno qui hanno ricevuto questo gesto d’amore”.

Il gesto di Giuseppe di Arimatèa rivive nel gesto del giovane infermiere che all’ospedale di Piacenza ha accompagnato alla morte don Paolo Camminati recitando al suo capezzale tre Ave Maria. Poi si è scusato perché non ha potuto recitare il Rosario tutto intero perché non aveva proprio il tempo di farlo.

Neppure in questa pandemia in cui si muore soli e lontano da tutti la pietas è venuta meno grazie all’ardire di uomini e donne che, come Giuseppe di Arimatèa, si fanno avanti coraggiosamente per curare, consolare, accarezzare, andando oltre il proprio dovere d’ufficio. Dopo il gesto di compassione di Giuseppe il crepuscolo di quel venerdì si chiude con un fremito. L’evangelista Luca nota, infatti, che “splendevano ormai le luci del sabato” dalle finestre delle case di Gerusalemme.

 

 

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