“Parlo della mia esperienza: essere una ragazza era tremendo negli anni ‘60 e ‘70. Eri giudicata per cose che non ti importavano: capelli, unghie, fidanzati… tutte stupidaggini che facevano venir voglia di diventare un licantropo!”
L’esordio nel fumetto a 55 anni di Emil Ferris, “La mia cosa preferita sono i mostri”, è un graphic novel che ha conquistato il pubblico e la critica negli Stati Uniti e che è arrivato nelle librerie italiane dopo un intenso lavoro di traduzione e adattamento grafico. ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, che critica duramente il rapporto degli americani con il proprio passato

I mostri sono dappertutto: l’amore, la malattia, i terribili eventi che accadono nella vita. Assumere le sembianze di un licantropo può essere la soluzione per difendersi da questi mostri spaventosi e salvarsi da un terribile destino, ovvero quello di una ragazzina di dieci anni.

Ne La mia cosa preferita sono i mostri, graphic novel di Emil Ferris, per la piccola Karen vivere nella Chicago del 1968, in piena contestazione culturale, è come trovarsi in un film horror, circondata da essere spaventosi, visioni e misteri.

Chi ha ucciso Anka, la bella e inquietante donna ebrea del piano di sopra? Nel libro di Ferris l’horror è solo una maschera che la storia indossa per raccontare in maniera inedita la realtà, e il fumetto è il linguaggio eletto. Una scelta quasi predestinata, come spiega la stessa autrice intervistata da ilLibraio.it.

Il graphic novel è disegnato interamente a penna biro e ricorda i blocchi di appunti degli studenti. Testo e disegno si fondono in un’unica opera d’arte. Per questo motivo la traduzione, curata da Michele Foschini, e l’adattamento in italiano del lettering ha costituito un lavoro meticoloso da parte del team editoriale di Bao Publishing. A tal proposito, Lorenzo Bolzoni, il senior designer che ci ha lavorato insieme a Vanessa Nascimbene, ci ha spiegato: “Il lettering è fortemente legato alle immagini presenti, si fonde letteralmente con esse. Nell’ottica di preservare queste caratteristiche è stato creato un font, mutuandone l’aspetto dalla calligrafia originale, ma in alcune pagine particolarmente elaborate sarebbe risultato comunque troppo meccanico, e così abbiamo ridisegnato alcuni titoli, onomatopee, piccole frasi, utilizzando gli stessi strumenti che abbiamo supposto avesse usato l’autrice: pennarelli e penne a sfera. Un tipo di adattamento del genere è piuttosto lungo e complesso: ci siamo dedicati ad esso per circa duecento ore di lavorazione“. Un lavoro che è stato supervisionato dall’autrice e dalla casa editrice americana, Fantagraphics, aggiunge Bolzoni: “Per noi era fondamentale avere la loro approvazione finale sulle nostre lavorazioni. È stata una grande soddisfazione sapere che entrambi hanno particolarmente apprezzato la cura profusa”.

Esordiente nel fumetto a 55 anni, Ferris ha alle spalle una carriera da illustratrice e una malattia, il virus del Nilo Occidentale, contratta dal morso di una zanzara, che l’ha paralizzata e costretta a imparare nuovamente a camminare e disegnare.

Prima di dare alle stampe La mia cosa preferita sono i mostri, lei lavorava come illustratrice freelance. Com’è arrivata al fumetto?
“Molto spesso, mentre lavoravo alla mia arte, desideravo espandere i dipinti o i disegni e aggiungere i testi alle immagini. Lo stesso accadeva con i miei scritti. Mi trovavo a fare degli scarabocchi ai margini dei racconti. È straordinario che questi impulsi siano innati. Per quanto al tempo ammirassi i fumetti, non avrei mai detto di ‘desiderare’ di crearne di miei, sebbene ora sappia che era esattamente così”.

Esiste un interessante collegamento tra i fumetti e il genere horror…
“Essere nata negli Stati Uniti significava aver trascorso l’infanzia in una casa infestata dai fantasmi. Forse vale per molti altri luoghi in cui la barriera tra la realtà del presente e la storia violenta è estremamente permeabile, ma la differenza significativa è che negli Usa siamo così presi dalla storia ripulita del nostro ‘eccezionalismo’ da aver scelto di ignorare e sopprimere la verità”.

Ad esempio?
“Le nostre squadre sportive, le strade, le città e le macchine raccontano una storia che non ci piace ricordare. Vengono chiamate con i nomi dei nativi americani che vissero lì e che poi vennero deportati e spesso massacrati. Strano, no? Negli Usa abbiamo scelto di ignorare la malevola presenza nella nostra ‘casa’. È come se avessimo deciso insieme di non sentire le urla (la storia) che vengono dal fondo delle scale. Eppure, l’inumanità che ha alimentato i genocidi di massa e una delle più oscene e durature forme di schiavitù che il mondo ha conosciuto è ancora con noi. Sfortunatamente, continua a rivendere ‘la casa’ a nuovi ignari proprietari”.

E quindi arriviamo all’horror.
“Sì, il genere più vero, perché ci permette di considerare la verità in maniera graduale e, nonostante il concetto di terrore, è curiosamente non minaccioso. La minaccia è il ‘mostro’ fuori da noi, non quello dentro… finché non siamo abbastanza forti da fare quel salto. Per questo sapevo che per raccontare questa storia avrei usato l’horror”.

Ci sono numerose citazioni artistiche nel suo libro. L’intero lavoro si avvicina a Goya e all’iper-realismo. Da dove ha tratto ispirazione?
“Goya è stata una grande rivelazione per me, non solo a livello visivo ma anche per i suoi testi. Ciascun pezzo contiene migliaia di parole che devono essere decodificate. È questo che pensavo da bambina. Sono tante le persone a cui sono debitrice. Tra i creatori di fumetti, Art Spiegelman, Robert Crumb, Alison Bechdel, Chris Ware, Barry, Wrightson e gli artisti di MAD come Wally Wood e molti altri. Mentre alcuni dei miei scrittori preferiti sono Ursula Le Guin, Philip K. Dick e Michel Faber”.

Karen, la protagonista, ha dieci anni, ed è una sorta di suo alter ego, appare sotto le sembianze di un licantropo perché lei pensa che essere una ragazza umana sia deprimente. Perché proprio un lupo mannaro?
“Ammetto di avere un debole per i licantropi. È davvero difficile trasformarsi in qualcosa di tanto terrificante e potente. È una sfida totale persino mantenere un brandello di umanità”.

E perché per Karen è così odioso essere una ragazza?
“Parlo della mia esperienza: essere una ragazza era tremendo negli anni ‘60 e ‘70. Eri giudicata per cose che non ti importavano: capelli, unghie, fidanzati… tutte stupidaggini che facevano venir voglia di diventare un licantropo!”.

Quali erano invece i suoi modelli?
“Mi ispiravo a Giovanna d’Arco e Harriet Tubman perché le loro storie non riguardavano il modo in cui hanno superato le loro sopracciglia ‘sbagliate’ o come hanno raggiunto un perfetto corpo da spiaggia”.

Dopo aver contratto il virus del Nilo occidentale ha dovuto imparare a disegnare di nuovo. Il suo stile è cambiato? Qual è stata la lezione più importante che ha imparato?
“Che gli umani sono degli stregoni, dei maghi. Immagina quello che vuoi e non smettere di lavorare. Non fermarti! Probabilmente i mio stile ora è più uno scolpire lo spazio con tratti più piccoli perché la mia mano non funziona, ma sto lavorando sulla stabilità per un libro che è ambientato nel 19esimo secolo, staremo a vedere”.

Continuerà a fare fumetti?
“A dirla tutta, sono una stacanovista. Al momento sto completando il secondo volume de La mia cosa preferita sono i mostri e sto lavorando ad altri tre libri nel “tempo libero”, quando dovrei dormire. Non ho intenzione di fermarmi. Ho tante storie da raccontare”.

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