Violetta Bellocchio ci racconta “Nerdopoli”, una raccolta di saggi brevi dedicati alle ormai ex subculture contemporanee, che cercano di analizzare il vasto paesaggio del mondo nerd. Un paesaggio profondamente ostile perché “da un lato le parole nerd, geek, otaku e le loro varianti più note sono punti d’ingresso a mondi di cui una larga fetta di lettori non desidera sapere nulla, o, peggio, si considera già a conoscenza tramite articoli lacunosi e/o mezze frasi sbirciate sui social, dall’altro lato i portatori sani del nerdismo si considerano superiori, inaccessibili a qualsiasi tentativo di mappatura” – L’approfondimento

Stando alle linee-guida di Nerdopoli (effequ), per come le lasciano intuire le scelte più nette operate dalla curatrice Eleonora Caruso, una raccolta di saggi brevi dedicati alle ormai ex subculture contemporanee dovrebbe soprattutto accasare tra quattro mura un piccolo gruppo di testi che altrimenti correrebbero il rischio di rimanere isolati, magari dispersi in varie riviste online, collegabili dallo zelo di un lettore accanito ma non da un senso di forte progettualità. Muovendosi nella direzione dell’antologia, invece, sette critici cercano di indagare su quello che si potrebbe definire “un paesaggio aperto”, ciascuno . E in effetti gli estimatori maniacali dei prodotti un tempo per pochi se non pochissimi tendono ad avere parecchi trait d’union. Per cui, ad esempio, chi ha assistito alla progressiva contaminazione tra letteratura fantasy e giochi di ruolo, lo scrittore Simone Laudiero, è in grado di riassumere la storia della propria nicchia in maniera incisiva, ma deve anche mettersi in condizione di parlare con chi ha adoperato lo stesso puntiglio per l’analisi del manga LGBT di matrice giapponese. Dovrebbe girare così il mondo, no? Si dialoga, ci si confronta, si scopre che in fondo non si è poi tanto diversi? Va tutto benissimo. 

In teoria. 

Scendendo nella brutalità dei fatti, Nerdopoli ha di fronte un paesaggio profondamente ostile: da un lato le parole nerd, geek, otaku e le loro varianti più note sono punti d’ingresso a mondi di cui una larga fetta di lettori non desidera sapere nulla, o, peggio, si considera già a conoscenza tramite articoli lacunosi e/o mezze frasi sbirciate sui social, dall’altro lato i portatori sani del nerdismo si considerano superiori, inaccessibili a qualsiasi tentativo di mappatura. Questo nonostante le loro risorse economiche e spirituali siano state prosciugate da un mercato che impone il paradigma dell’intrattenimento ossessivo (basta pensare al Trono di spade) e prima, per decenni, ha capitalizzato sulla loro brama di sapere tutto – il desiderio di dominare una materia che poteva essere il recupero del cinema di serie D tanto quanto Neon Genesis Evangelion è stato incanalato nella frenesia dell’acquisto di ogni gadget relativo alla propria passione, nel deterioramento quando non nell’assenza delle reti sociali là dove venisse a mancare quella passione declinata secondo le stesse identiche modalità.

nerdopoli

Rimando a quanto scritto su Not a ridosso dell’uscita di Ready Player One: “il fandom è maestro nell’arte di considerarsi un salottino per pochi intimi all’insegna di buona fede e gusto, ma brandisce con la medesima facilità la sindrome della maggioranza accerchiata, là dove qualcosa non gli torna”. È ovvio che nel momento in cui un gruppo di uomini e donne si sente osteggiato dal mondo esterno quel gruppo preferirà continuare a pensare di essere una fascia alta della specie umana, altissima, anche quando i dati reali offriranno un quadro assai diverso della situazione.

C’è una frattura potente tra quanta voce si è preso via via il cosmo nerd e quanto scarso (o superficiale) sia il vero appagamento che il nerd ottiene dai consumi. Se davvero, seguendo la brillante ricostruzione di Arianna Buttarelli, il videogame si è affermato come il solo prodotto per cui vale la pena investire cifre corpose e settimane di vita, allora perché le trame dei giochi e la caratterizzazione dei personaggi stentano a prendere il volo, e la relativa intensità resta confinata ad alcuni titoli fortunati quali Gone Home? Oppure: se la cattiva programmazione di una serie TV ha obbligato una generazione di spettatori a diventare intraprendente, andando a caccia di persone proprio come loro con cui condividere il dolore e la gioia, e poi forse sviluppando maggiore abilità nella ricerca e nell’assorbimento delle informazioni, perché questo salto in avanti evolutivo non ha avuto alcuna ricaduta in termini di consapevolezza linguistica e attitudine alla discussione? E se davvero la fanfiction ha permesso a potenziali creativi di esprimersi fornendo loro una prima cassetta degli attrezzi, perché non stiamo assistendo a un cambio radicale di mentalità ma all’assimilazione da parte delle piattaforme che premiano i contenuti più scadenti, manovrando la presunta autonomia degli autori dilettanti, schiavi all’eterna ricerca di un applauso che non saranno loro a godersi in pieno, mai? 

Nel suo saggio raccolto qui, Aligi Comandini utilizza l’espressione “il bullo con gli occhiali” per indicare il nerd buttafuori del condominio contro-culturale che appena conquista un accenno di autorevolezza replica le stesse dinamiche di esclusione da lui subite in contesti tradizionali. La storia non è nuova, il meccanismo familiare a chiunque abbia svolto una professione artistica negli ultimi dieci, quindici anni; ma mentre fino a poco tempo fa si poteva ancora abbozzare un tentativo di consolazione rifugiandosi nel pensiero che in fondo in fondo sono tutti uguali, perdenti, vincenti, intellettuali e garagisti, oggi non è più accettabile la semplice presa di coscienza né il desiderio infantile di tenersi stretti gli occasionali lati positivi di un grande balocco, nel momento in cui, l’hanno documentato sia Alessandro Lolli nella Guerra dei meme sia soprattutto Angela Nagle nel fondamentale Kill All Normies (in uscita in Italia per Luiss University Press con il titolo Contro la vostra realtà – Come l’estremismo del web è diventato mainstream), i rapporti tra le sub-sub-culture inizialmente radicate nella finta familiarità che deriva dall’apprezzamento di tutto quanto vada oltre il mainstream e una serie di fenomeni eversivi collocabili all’estrema destra di uno spettro ideologico anche generoso sono diventati un fatto assodato, latore di conseguenze terrificanti.

Senza scomodare le persecuzioni giornaliere ai danni di individui quasi privilegiati (l’attrice Kelly Marie Tran che si ritrova distrutta da una fan base in rivolta, ma anche il romanziere e sceneggiatore Chuck Wendig licenziato per i suoi tweet politici dallo stesso gigante del cine-fumetto che si vantava di impiegare artisti irriverenti), il critico Matteo Grilli in un lungo contributo apparso l’anno passato su La Caduta riassumeva la propria esperienza da partecipante e osservatore del message board 4chan come “la morte di un linguaggio attraverso il tentativo di annullare l’altro in un falso senso di comunità”. Grilli faceva riferimento a uno dei tanti punti ciechi dell’aggregazione online, certo, un luogo che oggi tutti abiurano, ma il falso senso di comunità di cui parlava è forse il tratto più perturbante e condiviso nell’esperienza nerd. Cosa succede quando una minoranza abituata a stare assiepata sul sedile posteriore si ritrova sbalzata al posto di guida, chiavi in mano, nessuna supervisione efficace all’orizzonte? 

Qui e ora, sembra già uno scenario utopico l’anno 2011 in cui il presentatore americano Chris Hardwick poteva sfornare un libretto di auto-aiuto, The Nerdist Way, dove esortava donne e uomini proprio come lui a mettere a frutto le loro capacità innate per ricavarne una vita libera, ricca e industriosa, la felicità. Avete già tutto quello che vi serve per vincere, diceva lui, dall’alto di una carriera resuscitata grazie a certi vecchi interessi accantonati in fretta e furia quando inseguiva il successo televisivo. Qui sta l’aspetto patologico del nerd, buono o cattivo, nella misura in cui è diventato il nuovo normale: il nerd vuole essere accettato esattamente per quello che è, non vuole cambiare, crescere o rivedere le proprie idee in maniera significativa; da consumatore le sue pretese potranno solo aumentare, da attore sociale tenderà ad arroccarsi in difesa di quattro minuzie irrilevanti e a vendere la sua versione dei fatti come il modo giusto di fare le cose, l’unico degno di venir preso sul serio. 

Questo aspetto problematico è rimasto tra le righe. Abbiamo rinviato il momento di affrontarlo a tempi meno travagliati, si è rivelato un rimosso catastrofico e oggi contribuisce a un doppio inesorabile processo di marginalizzazione: i peggiori guadagnano terreno, i vulnerabili si tagliano fuori da tutto, stravolti dalla follia isolazionista della stessa macro-cultura che avrebbe dovuto contenere moltitudini. In teoria, sempre in teoria. 

 

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Ha pubblicato Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio) e il suo ultimo romanzo, uscito per Chiarelettere, nella collana Altrove, è La festa neraQui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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