“Ci sono due tipi di nostalgia. Quella che le persone provano quando ricordano il passato e, ricordandolo, ne sentono la mancanza e soffrono di questo e una seconda forma, che è quella che mi appartiene, e che è un prodotto letterario. La nostalgia che provo io esiste quasi solamente sulla carta: scrivendo riporto alla mente memorie che risultano essere un prodotto della scrittura stessa, di cui non ero neppure conscio”. André Aciman torna in libreria con “Il bacio di Swann”, colta divagazione su nostalgia, memoria e letteratura. Intervistato da ilLibraio.it, l’autore racconta la sua idea di nostalgia e come, per lui, scrittura e memoria si compenetrino. E parla del ruolo dell’amicizia: “Qualcosa che ho sempre bramato senza riuscire a ottenerla completamente, come l’amore: non l’ho mai provato completamente, non sono mai stato ossessionato da un’altra persona…”

André Aciman torna in libreria con Il bacio di Swann (Guanda): non un romanzo ma una divagazione in cui nostalgia, memoria e letteratura si fondono, cercando l’una di dare risposta ai quesiti dell’altra. Ripensando alla sua storia familiare, alle città che ha attraversato, agli autori che lo hanno formato, Aciman costruisce un mosaico di suggestioni che restituisce ai lettori in un forma ibrida, tra il memoir, il saggio critico e il flusso di pensiero.

Ogni capitolo racconta un autore, un luogo, un momento della vita di Aciman, in un colto gioco di rimandi, grazie a una penna tanto coinvolgente quanto lieve.

Il bacio di Swann di André Aciman libri da leggere estate 2023

Aciman, che cos’è, per lei, la nostalgia?
“Ci sono due tipi di nostalgia. Quella che le persone provano quando ricordano il passato e, ricordandolo, ne sentono la mancanza e soffrono di questo e una seconda forma, che è quella che mi appartiene, e che è un prodotto letterario. La nostalgia che provo io esiste quasi solamente sulla carta: scrivendo riporto alla mente memorie che risultano essere un prodotto della scrittura stessa, di cui non ero neppure conscio prima. Nella scrittura scopro la mancanza, per esempio, di luoghi che non pensavo di avere il desiderio di rivedere”. 

Un aspetto rilevante nel testo è quello della diaspora; possiamo parlare di quella del popolo ebraico, ma è comune a tanti altri popoli. In che modo la diaspora intacca la memoria familiare?
“I membri della mia famiglia erano abbastanza colti e a casa nostra si parlava ancora ladino: spesso si tornava a parlare dell’esodo dalla Spagna, che per loro era ancora qualcosa di estremamente reale. Inoltre, erano tutti nati in Turchia, dunque provavano una certa nostalgia – o almeno credevano di provarla – anche per quel Paese. E io stesso, nato in Egitto, ho dovuto lasciarlo per andare in Italia e poi lasciare anche l’Italia. Sono cresciuto assorbendo vari livelli di nostalgia e distacco, perché nessuno dei miei familiari conosceva la Spagna e l’Egitto non era veramente casa nostra, così come non lo è stata davvero neppure l’Italia: sono diventato cittadino italiano perché mio padre, molto semplicemente, aveva comprato la cittadinanza. Più che una nostalgia vissuta, quella che ha percorso la mia famiglia, è una nostalgia trasmessa: certe cose vengono tramandate di generazione in generazione: è quanto vediamo accadere con i nipoti dei superstiti della Shoah”.

Proprio in riferimento a questo aspetto dell’Olocausto, lei scrive di come eventi del genere suscitino una memoria anche in chi non li ha vissuti in prima persona.
“È un aspetto che mi ha sempre interessato: oggi esistono una serie di teorie su come il trauma venga tramandato a chi non l’ha vissuto direttamente. Si tratta di una memoria ereditaria, attraverso cui il senso della fame, della paura, dello shock, viene trasmesso da una generazione all’altra; un qualcosa che si prova, si avverte, pur non riuscendo a dargli un nome. Per questo torniamo in Paesi come la Spagna o la Polonia a cercare qualcosa che per noi non è mai davvero esistito”.

In questo libro lei parla del legame tra ricordo e atto creativo: questo aspetto come si riflette nella sua attività di scrittore?
“Quando si scrive del passato si finisce sempre per adoperare la voce del romanziere. Il racconto è un atto creativo, per questo si riesce anche a ritrovare la voce di persone mai conosciute, o magari conosciute solo attraverso i ricordi di altri. Il fatto di raccontare certe cose, di crearle, le fa diventare reali nel momento stesso della scrittura. Ma questo, allo stesso tempo, succede anche al contrario. Quando è uscito Chiamami col tuo nome mi chiedevano se parlava di cose realmente successe: non ho mai dato una risposta. Non sono più capace di dire: ‘questo è successo veramente e questo l’ho inventato’ perché, nel momento in cui si scrive, basta mettere una virgola in un punto invece che in un altro per modificare la realtà. Credo che la scrittura, per un autore, sia sempre un modo di ritrovare nel passato certe cose che magari non sono esistite, ma avrebbero dovuto esistere”.

Dalle pagine emergono quattro grandi città: Alessandria, Roma, Parigi e New York. Il significato che queste città hanno per lei è cambiato nel corso del tempo?
“In conclusione al mio romanzo Cercami ho inserito un episodio a Roma, un episodio a Parigi, un episodio a New York e l’ultimo ad Alessandria. Queste quattro città mi definiscono in molti modi: Parigi non l’ho mai vissuta veramente, sono sempre andato in periodi di vacanza, come disse un critico, è un rendez-vous manqué, una città desiderata e mai vissuta; a New York abito, ma non mi considero un newyorkese; sono effettivamente italiano ma non sono più cittadino italiano; Alessandria, non l’ho mai amata. Come si può, allora, definire una persona che allo stesso tempo è e non è cittadino di quattro città? Questo ha sempre rappresentato un rompicapo che non riesco a risolvere”.

In generale questo testo si presenta come un pellegrinaggio attraverso i luoghi e le voce di alcuni autori e personaggi della cultura.
“Tutti i personaggi che ho citato nel Bacio di Swann sono stati molto importanti per me. Scrittori, pittori, filosofi, compositori che mi hanno fatto capire che erano tutti alla ricerca di qualcosa che non riuscivano ad afferrare e che io, presuntuoso, credevo di aver capito. Alla fine, interpretandoli tutti male, cercavo di capire me stesso e di dare un senso a questo concetto che ripeto nel libro, di qualcosa che sarebbe potuto accadere eppure non è mai successo e del desiderio che si innesta su questo pensiero. Attraverso questi personaggi ho capito che esisto in un modo, come mi piace definirlo, congiuntivo, nella speculazione di me stesso”. 

Nei suoi libri ha sempre avuto grande rilevanza la relazione amorosa, qui compare a più riprese l’amicizia.
“L’amicizia è qualcosa che ho sempre bramato senza riuscire a ottenerla completamente, come l’amore: non l’ho mai provato completamente, non sono mai stato ossessionato da un’altra persona. Quando ero bambino non avevo amici, non ne cercavo neppure, era mio padre a ripetermi di uscire, di conoscere altri ragazzini: durante la stagione balneare tutti si radunavano, mentre io non volevo giocare né parlare con nessuno. Mio fratello, invece, aveva capito bene l’importanza dell’amicizia e creava legami con gli altri. Ancora oggi, pur avendo molti amici, persone che mi sono care, dopo un po’ di tempo passato insieme ho di nuovo bisogno di stare solo. E per quanto sia consapevole della fedeltà dell’amicizia, non sono mai riuscito ad aprirmi completamente con un amico o un’amica, perché ho sempre temuto di poter cambiare idea. Insomma, per me, l’amicizia è qualcosa di molto desiderato, che tuttavia viene a mancare”.

Come mai ha scelto di concludere il libro con Pessoa?
“Perché non c’è una cosa che Pessoa abbia scritto su cui non sia d’accordo. E mi dà molto fastidio che i critici sentano sempre la necessità di parlare degli eteronimi di Pessoa, quando secondo me la questione degli eteronimi è sempre stata secondaria. Pessoa era una persona che provava una difficoltà a vivere nel mondo, ed è questo l’aspetto che per me è importante e che cerco di indagare. Su Pessoa si potrebbe scrivere un libro lungo quanto la sua opera”.

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