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“Combattere la povertà”, il reddito di cittadinanza raccontato da chi lo ha studiato

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Proprio nei giorni in cui le cronache nazionali si concentrano sul dibattito inerente la revisione del Reddito di cittadinanza e sui risvolti politici che questa si avvia a prendere, esce per Laterza Combattere la povertà, un saggio del professor Cristiano Gori, docente presso l’Università di Trento, che del Reddito è uno dei promotori, in qualità di coordinatore scientifico dell’Alleanza contro la povertà.

Un libro, quello di Gori, che già dal sottotitolo esprime il suo intendo: offrire una carrellata dei provvedimenti presi, “dalla social card al Covid-19”, soffermandosi dunque non sulla mera teoria, ma sulle applicazioni pratiche delle misure di sostegno al reddito e dell’inclusività, usando una tecnica divulgativa che sceglie di suddividere i capitoli per argomento, indipendenti gli uni dagli altri, in modo da lasciare che sia il lettore a decidere quale ordine seguire nella consultazione.

Professor Gori, un dato: tra il 2007 e il 2018 le persone in stato di povertà sono passate da 1,8 a 5 milioni. Anche la povertà stessa è cambiata: se prima si concentrava in determinate aree geografiche del Paese e in certe fasce d’età, adesso è un fenomeno più generalizzato.
“Sono accaduti due avvenimenti fondamentali, dalla fine dl 2008 a oggi: l’incremento quantitativo del fenomeno della povertà e il mutamento qualitativo. Se prima, cioè, era concentrata in alcuni gruppi sociali, al Sud e nelle famiglie numerose, adesso segue anche in altri ambiti una crescita percentualmente più ampia. In particolare, a essere a rischio sono le famiglie con anziani. Il dato è questo: non solo raggiunge dei livelli di diffusione mai visti prima ma, per la prima volta, rompe gli argini e taglia trasversalmente tutta la società. È un sintomo di vari fattori”.

Quali?
“Una maggiore fragilità delle famiglie, una crescente precarizzazione del mercato del lavoro. C’è poi una difficoltà nelle politiche pubbliche, ed è qui che nasce il libro: dalla volontà di migliorare un welfare carente, riprogrammandone l’agenda. Il mio saggio racconta come e perché sono state costruite le politiche di contrasto alla povertà, sfruttando il punto di vista di una persona che è stata direttamente impegnata nel realizzarle”.

Nel libro lei parla di alleanza tra i soggetti sociali.
“L’Alleanza contro la povertà è una aggregazione di policy che è arrivata a comprendere 39 realtà. Chi partecipa alla costruzione delle politiche non scrive spesso libri in proposito: io ho voluto raccontare come il potere si è relazionato a questo tema. Il mio punto di vista è quello di chi si occupa di advocacy: non è quindi un saggio accademico, ma qualcosa a metà tra un diario e un’analisi per non addetti ai lavori, per spiegare l’interazione tra una povertà che cresce e i soggetti sociali, e come si arriva a costruire delle risposte. Advocacy, lavoro, pressione sociale e i diversi modi in cui i vari governi hanno affrontato il tema. In breve: se dai governi di sinistra è stato concepito il reddito di inclusione, ci voleva poi l’ingresso dei Cinque Stelle nei Palazzi per concepire un reddito di cittadinanza. Ne spiego la genesi perché ho partecipato a tutte le elaborazioni delle misure”.

Lei nota una correlazione tra le carenze nel welfare e il precario “stato di salute” di un Paese: in Europa non è solo il caso dell’Italia. Perché accade?
“In Italia sono mancate le riforme. Per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, per quanto mi addolori dirlo, il problema della povertà riguardava per lo più i soliti noti, era molto diffusa l’idea che certe aree del Paese rimanessero in situazione di svantaggio. Poi mancavano le forze politiche interessate al problema”.

Cosa intende?
Due politiche, più di altre, sono storicamente vicine alla povertà, ovvero quelle della sinistra e della Chiesa. Ma fino a poco tempo fa da un lato si demandava all’assistenza privata, e dall’altro si pensava che il problema riguardasse solo disoccupati e pensionati, mentre abbiamo visto che riguarda le famiglie. Non era dunque sentita una battaglia per la povertà: ritengo che sia stata attuata da Papa Francesco e dai Cinque Stelle, oltre che dall’Alleanza, che organizza e struttura anche i più poveri in una lobby. In questo caso la politica inizia ad ascoltare, e si procede verso un universalismo. Prima, il reddito di inclusione prevedeva dei criteri diversi, ovvero che in famiglia ci fosse un minore o altro. Noi abbiamo ridotto il criterio all’economia, per equiparare. In Italia le politiche sono basate sulle categorie, non sull’universalità. In due capitoli affronto infatti le differenze tra le due misure”.

Cioè?
“Il Rei era meglio disegnato e peggio finanziato, il Rec, viceversa, ha più fondi, ma è perfettibile. È la differenza tra riformisti e populisti, e non lo dico con accezione negativa: i ‘populisti’ hanno aggiunto dei fondi alla misura, mentre i riformisti aspettavano di poter essere più preparati”.

Qui l’obiezione si impone: il Reddito di Cittadinanza è oggetto di polemiche, sia politiche sia di altra natura. Ad esempio recentemente ha destato scalpore la notizia che i picchiatori di Colleferro fossero percettori di reddito: non ha funzionato qualcosa nei controlli?
“Il punto è che la misura è stata fatta in fretta, e perciò male. In fretta sia per ragioni elettorali sia ideologiche: i populisti fanno le cose velocemente per l’urgenza di aiutare concretamente gli ultimi, e così si perde qualcosa nella struttura, nei controlli. Ma le famiglie che ricevono il reddito sono un milione e trecentomila: interessava questo risultato”.

La fretta si è scontrata con l’emergenza: nel suo libro affronta il tema pandemia.
“L’unico momento storico in cui l’assistenzialismo poteva non costituire un problema era proprio questo dell’emergenza Covid. La domanda sociale mutava con la crisi, e questo ci riporta al tema dell’advocacy: era fondamentale convincere il governo a fare un reddito facilmente accessibile”.

In un ordinamento ideale, quale sarebbe la misura da realizzare?
“L’ideale sarebbe evitare di caderci, nella povertà. Sostenere i gruppi sociali. Le politiche sono un tampone, ma l’ideale sarebbe rafforzare gli elementi di welfare: in questo senso l’evoluzione della povertà è emblematica, perché si è allargata verso i giovani, è ai giovani che manca il lavoro. Da questo punto, o assisteremo a una radicale inversione di rotta, o a una accelerazione di un percorso di declino che va avanti dagli anni ’90”.

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