Da un lato il confronto con il limite, dall’altro, c’è il gioco come rifugio: nel suo nuovo romanzo (breve), “Il Mago di Riga”, Giorgio Fontana condensa due principali tradizioni sull’esperienza ludica che la letteratura, nei secoli, ha esplorato. Ma il libro (biofiction sulla vita del campione di scacchi Michail Tal’) si può leggere (anche) come una grande allegoria della creazione artistica, della scrittura, sulle sue possibilità, sui suoi fallimenti

Il 5 maggio 1992 a Barcellona, a poco più di un mese dalla morte, Michail Tal’ gioca la sua ultima partita a scacchi contro Vladimir Akopian. A partire da questo evento, ricostruito e raccontato con dovizia di particolari, Giorgio Fontana costruisce il suo ultimo romanzo breve, Il Mago di Riga (Sellerio), biofiction sulla vita di Tal’, prodigio sovietico degli scacchi sin dal 1957 (quando di anni, Tal’, ne aveva solamente ventuno). E di questa vita Fontana scrive quasi la leggenda: Miša (così veniva comunemente chiamato Tal’) è descritto come un ipnotizzatore (un mago, come da titolo), la sua storia si staglia su uno sfondo di magia e mistero, di leggenda appunto, perché la sua esistenza si confronta continuamente con l’esperienza del limite che si crea attraverso il gioco: non a caso quest’ultima partita è raccontata quasi come se fosse un gioco contro la morte, e proprio come un uomo che sta per morire, tutta la vita di Tal’ si manifesta davanti i suoi (e i nostri occhi).

Giorgio Fontana Il Mago di Riga

La struttura narrativa de Il Mago di Riga, infatti, è un continuo movimento nel tempo che rimbalza dalle mosse messe in pratica su quella scacchiera a Barcellona e gli episodi del passato che vengono evocati senza soluzione di continuità o gerarchia: quella scacchiera condensa la vita del protagonista e ogni pezzo che si muove porta con sé un ricordo che spezza l’evento e ci dà un’immagine di Miša (ma verrebbe da usare il plurale, perché è come se il personaggio si sdoppiasse e, allo stesso modo di quella famosa affermazione di Borges per cui esiste un io che vive  e uno che scrive, così sembrerebbe esistere un Miša che gioca e un Miša che vive).

A tenere insieme questo indisciplinato fluire di frammenti del passato c’è la pressante esperienza del gioco, cui pure le passioni, i disagi, le malattie, le incombenze più quotidiane e trite sono rapportate; sul corpo e sulla storia di Tal’ Fontana, infatti, condensa due principali tradizioni sull’esperienza ludica che la letteratura, nei secoli ha esplorato: da un lato, come già avverte l’epigrafe da Georges Bataille, il confronto con il limite (cui per esempio appartiene il Clappique della Condizione umana di Malraux): “giocare è sovvertire l’ordine delle cose”, è creare una “foresta dove le regole saltano”, nel gioco, per come Fontana ce lo racconta, avviene quello stesso grado di spersonalizzazione, di uscita dal sé, di frammentazione dell’io, di violenza dell’amore o del sesso.

Dall’altro, c’è il gioco come rifugio, come protezione, strategia di resistenza di fronte “all’urto del reale. Perché il mondo reale era quasi sempre assurdo”. Il gioco, dunque, come un mondo altro, che è anche un mondo di possibilità (e viene da pensare a un altro romanzo recente sul gioco come La stanza profonda di Vanni Santoni). Così, gli oggetti, i pezzi degli scacchi, sono trasfigurati in una selva di opportunità: “quel gioco non era soltanto una tregua per esuli e lavoratori, era la paziente tessitura di un altrove”. Eppure, si tratta di un processo ambiguo e che lo stesso Tal’ non sembra vivere con facile euforia: è piuttosto la costruzione di un’illusione cui si presta fede ogni volta che si gioca.

Ma incentrando la sua storia sul momento di finale, sull’ultima partita, di questa possibilità mitopoietica Fontana ci racconta anche e soprattutto la fine, il termine del gioco, l’appassire della leggenda, delle possibilità di superamento del limite e di creazione di uno schermo dal mondo.

La creazione, d’altronde, ha forse qualcosa di magico per il narratore del Mago di Riga e non c’è dubbio, per lui, che pure si mostra nient’affatto distaccato dalla storia che sta raccontando e quindi per nulla un biografo tradizionale, non c’è dubbio, dicevo, che il gioco degli scacchi sia un processo creativo (“che gli scacchi fossero arte non c’era dubbio alcuno”), di una mitopoiesi che si fa canovaccio su cui costruire e tratteggiare la vicenda di Tal’ e l’esperienza del gioco (la tattica di Miša viene addirittura paragonata alla Medusa di Caravaggio: di nuovo un’immagine di ipnotismo). Non a caso, nel Mago di Riga, molto più che nei romanzi precedenti di Fontana, troviamo un uso smodato della similitudine: se in Morte di un uomo felice o in Per legge superiore era un uso anomalo dei due punti a stabilire i nessi logici fra le frasi, a creare dei collegamenti, ad aprire continuamente il discorso, qui la punteggiatura anomala si normalizza per lasciare spazio a un procedere meno razionale e più immaginativo: la scacchiera che continuamente si trasfigura per farsi, appunto, microcosmo in grado di riassumere la vita del protagonista di questa romanzo, per riverberarsi anche in tutto ciò che sta fuori dal gioco: la vita familiare, la guerra fredda, le letture di Maupassant, la musica, lo stadio, le ragazze, i fan… Il gioco e la vita che si escludono su un piano esistenziale si ricongiungono, alla fine, su quello retorico – e verrebbe allora quasi da suggerire che Il Mago di Riga si può leggere anche come una grande allegoria della creazione artistica, della scrittura, sulle sue possibilità, sui suoi fallimenti.

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