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Quando la lotta è online

proteste Usa GettyImages-03-06-2020

La storia di George Floyd, l’uomo soffocato dall’agente di polizia di Minneapolis Derek Chauvin lo scorso 25 maggio, ha scosso il mondo intero. Sul suolo americano si stanno consumando – in piena pandemia –  manifestazioni e proteste contro le disparità che da secoli condizionano la vita degli afroamericani, ma la rivolta è arrivata anche in altri paesi, compresa l’Italia.

Qui la situazione è diversa”, sostengono alcuni chiudendo gli occhi di fronte alle questioni razziali che da anni riguardano anche le nostre discussioni (ricordiamo, solo per citarne uno, il caso di Soumaila Sacko, il migrante maliano 30enne ucciso il 2 giugno 2018 in provincia di Vibo Valentia, mentre difendeva i suoi compagni vittime del caporalato). Ma purtroppo, per quanto il contesto sia differente, il problema ci riguarda eccome, più di quanto immaginiamo.

Per questo il movimento #BlackLivesMatter ha raggiunto anche il nostro Paese, coinvolgendoci e facendoci mettere in discussione molto di quello che finora abbiamo fatto e che, sfortunatamente, non si è rivelato sufficiente ad arginare l’odio razziale.

Ma noi da qui cosa possiamo fare?”.

È questa la domanda che si sente più spesso, domanda che in alcuni casi odora di deresponsabilizzazione; in altri, invece, è manifestazione sincera di un’impotenza apparentemente impossibile da sconfiggere.

Del resto l’argomento è delicato, bisogna sforzarsi di capire, mettersi in discussione, allontanare i pregiudizi e informarsi (e naturalmente, quando possibile, donare alle cause il Post ne ha raccolte alcune a cui dare sostegno).

Si può partire dai libri, da alcuni testi di riferimento come ad esempio Donne, razza e classe di Angela Davis (Edizioni Alegre, traduzione di Alberto Prunetti, e Moïse Marie) e Con ogni mezzo necessario di Malcom X ( ShaKe, traduzione di Raf Valvola Scelsi, E. Guarnieri, WonderWoman), o da romanzi come Amatissima di Toni Morrison (Sperling & Kupfer, traduzione di Giuseppe Natale), Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates (Codice, traduzione di Chiara Stangalino) e I ragazzi della Nickel  di Colson Whitehead (Mondadori). Lo stesso Whitehead intervistato a fine 2017 da ilLibraio.it per l’uscita de La ferrovia sotterranea (Sur), che gli valse il primo Pulitzer, oltre al  National Book Award per la narrativa, non si faceva problemi ad ammettere che “gli Usa sono ancora un paese molto razzista”.

La pensa allo stesso modo Yaa Gyasi (della quale Garzanti ha pubblicato il romanzo Non dimenticare chi sei). Nata in Ghana 30 anni fa,  e cresciuta negli Usa, in Alabama, quando l’abbiamo intervistata ha dichiarato: “Non c’è un solo nero negli Usa che non abbia provato il razzismo”.

Ci si può dedicare alla visione di alcuni film e serie che raccontano bene la situazione negli Stati Uniti, come When They See UsSeven Second e BlacKkKlansman di Spike Lee, o ancora a documentari come 13th di Ava DuVernay, I Am Not Your Negro di Raoul Peck e il cortometraggio Black Sheep di Ed Perkins.

Si possono inoltre seguire i profili di chi ha deciso di far diventare Instagram un canale per combattere e diffondere informazione. Parliamo di persone che da tempo hanno iniziato a utilizzare la propria presenza online come strumento di sensibilizzazione, e che rappresentano non solo un modo per tenersi informati sulle notizie, ma anche un’opportunità per capire meglio la prospettiva di chi, quelle discriminazioni, le vive sulla propria pelle.

Qualche profilo Instagram da seguire in Italia per tenersi aggiornati

(Photo by Scott Heins/Getty Images)

La lista, come ovvio, potrebbe essere molto più lunga, e considerare anche personalità come Aboubakar Soumahoro (dirigente sindacale italo-ivoriano della USB, da anni impegnato nella lotta per i diritti dei braccianti), ma anche il giornalista e vicedirettore del Post Francesco Costa che, attraverso i suoi interventi e il suo podcast Da Costa a Costa sta portando avanti un lavoro di approfondimento per raccontare le contraddizioni degli Usa agli italiani (è appena uscito per Mondadori il suo saggio Questa è l’America).

Senza contare autori e autrici come Igiaba Scego (che abbiamo intervistato in occasione dell’uscita de La linea del colore, e che ha curato Future, un’antologia che ha raccolto le voci di undici giovani afroitaliane) e Antonio Dikiele Di Stefano (che in questo articolo ci ha raccontato la storia di chi è nato o vive in Italia ma non è rappresentato, né tutelato).

Inevitabilmente, osservando i loro profili, leggendo i loro post e ascoltando i loro i discorsi, sorge un dubbio – non in merito alla loro attività specifica, quanto al valore generale del fenomeno della lotta sui social: può avere davvero senso una lotta di questo tipo?

Il pericolo più evidente è che si riduca a essere un contenitore di contenuti, non tanto per chi questi contenuti li produce (che sicuramente è dedito alla causa per cui combatte), ma per chi ne fruisce. La partecipazione a una causa rischia di ridursi a un cuoricino sotto un post o alla condivisione di una storia (e anche per questo è importante non imporre i propri sentimenti di dolore e sconcerto su quelli delle comunità nere, cercando di utilizzare questi mezzi come casse di risonanza e non come veicolo per mettersi in primo piano e ostentare la propria personalità). Partecipare alla lotta è semplice, troppo semplice, se la lotta si consuma esclusivamente sui social, se la lotta è fruizione passiva e non, come per natura della lotta stessa, attiva. La questione è controversa, perché se da un lato seguire chi fa attivismo sui social è un ottimo punto di partenza, bisogna comprendere che è appunto soltanto l’inizio di un percorso più complesso, che richiede studio, impegno e, soprattutto, attività.

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