Difficile definire “bello” un libro le cui grandi scene d’azione girano intorno a branchi di foche prese a fucilate e poi trascinate per centinaia di metri lungo i ghiacci, e dove il lieto fine dell’operazione dipende da quante tonnellate di animali sono state ammazzate. Tuttavia, come si dice, questa è storia vera. Avventura nell’Artico (Utet) raccoglie diversi testi di Arthur Conan Doyle, molto prima che lo scrittore raggiungesse la notorietà grazie al personaggio di Sherlock Holmes, quando era un giovane studente di Medicina che per un misto tra necessità economica e desiderio di viaggiare prestò servizio sul piroscafo Hope come medico di bordo, durante una spedizione durata quasi sei mesi, a caccia di foche e soprattutto di balene.
Tra i diversi compiti di Doyle c’era il tenere un diario di bordo, assai stringato; il suo diario personale, invece, che qui fa la parte del leone insieme alle lettere spedite a casa, offre uno sguardo molto più profondo su come poteva essere la vita quotidiana a bordo di una nave nel 1880.
Se si trattasse di un romanzo d’avventura vecchio stile, adottare il punto di vista dell’ultimo arrivato permetterebbe, nei fatti, di esplorare il mondo narrativo su più livelli, così che il lettore prenda confidenza per gradi con le regole che governano la vita dei personaggi, e lo stesso accade in questo libro: grazie al proprio ruolo Doyle frequenta con la stessa agilità gli ufficiali e l’equipaggio, dopo una breve fase di conoscenza reciproca viene messo a lavorare a pieno regime – anche perché il ruolo del medico in un contesto simile ricorda più un jolly-tuttofare, un uomo di fatica dotato di qualche competenza extra a cui si può benissimo chiedere (o imporre) di prendere un’arma e buttarsi nell’azione come tutti gli altri, per la totale delizia di lui. (Ecco, se vi sentite in difficoltà di fronte a un io narrante che strilla di gioia alla prospettiva di fare secchi gli stessi animali fino a un attimo prima giudicati “teneri” e “adorabili”, passate oltre.)