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Una sinfonia di voci per raccontare Vivian Maier

«Era rapidissima e molto sicura. È inutile dire che ci guardiamo intorno in modo diverso quando siamo in compagnia di un forestiero, figuriamoci poi se continua a scattare freneticamente fotografie»: la figura misteriosa descritta in questo passaggio, il forestiero che fotografando, accende l’immaginazione e catalizza l’attenzione del suo accompagnatore, altri non è che Vivian Maier, osservatrice infallibile e fotografa di strada ormai conosciuta e amata in tutto il mondo. Dopo poche righe, lo stesso accompagnatore comincerà a osservare il noto paesaggio urbano con occhi nuovi, ragionando su particolari che si sorprenderà a cogliere per la prima volta. E in effetti, le fotografie di Vivian Maier, venute alla luce durante un’asta e mai esposte prima della sua morte, rivelano un occhio acutissimo ma anche, e soprattutto, una sensibilità umana fuori dal comune: catturano il lato segreto del consueto, della strada, della città e dei suoi abitanti.

Dell’artista si sa poco, ha vissuto un’esistenza appartata, lavorando come tata presso le famiglie dell’upper-class americana. «Vivian si introduceva dentro le persone di soppiatto», scrive ancora nel suo romanzo Christina Hesselholdt – autrice danese tra le più importanti in area nordeuropea – che alla ricostruzione biografica ha preferito una forma raffinata e frammentaria di mimesis, assegnando il compito di raccontare una personalità tanto enigmatica a un’intera squadra di narratori, alcuni di fantasia, altri ispirati a persone realmente esistite.

Il suo libro su Vivian Maier (in uscita il 25 ottobre per Chiarelettere, nella traduzione di Ingrid Basso; ndr), spassoso e struggente insieme, è una rincorsa di impressioni, battute, confessioni, che avvicinano il lettore alla donna e all’artista grazie a una lingua trasparente ma musicale, piena di echi e di formule ricorrenti, in cui si mescolano i registri più diversi.

L’architettura particolare del testo evade la narrazione lineare, la trama è intessuta di suggestioni e di rimandi: a partire da fatti realmente accaduti, Vivian Maier si racconta e viene raccontata in una sinfonia di voci in prima persona diretta da un Narratore-Incantatore. L’immagine che affiora – dell’artista geniale, della bambinaia, della fiera paladina dei diritti sociali, dell’accumulatrice seriale, della vergine giurata – assomiglia a un paesaggio scorto con la coda dell’occhio, mostra una creatura composita, sfuggente, che si lascia cogliere solo tra le righe.

Il lettore non può che stare al gioco del Narratore: costruisce e ricostruisce, legge e poi ritorna sui suoi passi, entra nella vita e nelle foto della Maier, la segue negli angoli più remoti della città, tra edifici fatiscenti e volti affamati, colmando con l’immaginazione le lacune della biografia. Pare che Maier stessa si facesse chiamare con nomi diversi e tutte queste incarnazioni – «Viv», Vivian, Vivienne – nel romanzo sono declinate dagli sguardi che la osservano e dalle parole che danzano intorno al mistero della sua vita. Vivian è la bambina goffa e troppo alta che prende lezioni di danza nel Sud della Francia, la ragazzina cresciuta a New York in una famiglia, numerosa, difficile, con genitori litigiosi e un fratello affetto da disturbi mentali. E poi è la giovane donna che, grazie alla guida della fotografa Jeanne Bertrand, cerca e trova un’ancora di salvezza nella macchina fotografica, la sua «scatola», il regno meraviglioso dove tutto è possibile, entro i cui confini si sente al sicuro, ed è grado di «risolvere ogni problema».

L’obiettivo di Vivian documenterà le rivolte degli afroamericani, immortalerà Audrey Hepburn quasi per caso, fermerà su pellicola i gesti e lo stile di vita di intere generazioni, ritraendo tanto l’America riottosa e scurrile della metropoli, quanto quella benestante e annoiata dei sobborghi. In modo simile, Vivian si presenta come un caleidoscopio di volti, riflessi, riflessioni – anche politiche –, ma soprattutto come il racconto intimo e immaginoso, a tratti spietatamente ironico, di un’artista, una scrittrice, che dialoga con un’altra, una fotografa, senza celare le sue fragilità (né le proprie), lasciando dietro di sé l’impressione calda e luminosa di una lunga, appassionata confidenza.

 

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