“La ragazza che brucia”, il nuovo romanzo di Claire Messud è un libro di formazione, ma anche una disamina di come, da adulti, rielaboriamo in prospettiva ciò che abbiamo vissuto negli anni dell’infanzia, quegli anni cruciali in cui tutto sembra possibile e le amicizie destinate a non finire mai… – Su ilLibraio.it un estratto

Julia e Cassie sono amiche fin dalla primissima infanzia. Hanno condiviso tutto, anche il loro desiderio di scappare dalle soffocanti limitazioni del luogo dove sono nate, la tranquilla cittadina di Royston, Massachusetts. Ma qualcosa le divide, Julia è figlia della buona borghesia, mentre Cassie ha una madre infermiera, single, che fa la spola tra le case di malati cronici e terminali e che non può dedicarle il tempo e le attenzioni necessarie a metterla al riparo da eventuali pericoli. Questa distanza si acuisce negli anni dell’adolescenza e le loro strade iniziano decisamente a divergere. Cassie sente il peso di non aver mai avuto una famiglia, il padre è morto quando lei era molto piccola (anche se ha sempre avuto il sospetto che questa non fosse tutta la verità) e ora la madre sembra essere caduta nella rete del misterioso e inquietante dottor Anders Shute. Ad aggravare questa situazione di solitudine e senso di abbandono si aggiunge il forte sospetto da parte di Cassie che il dottor Shute abbia scelto di convivere con la madre perché più interessato a lei. Arrabbiata e in cerca di risposte che possano ricomporre la sua identità, Cassie parte, da sola, per un viaggio che metterà in pericolo la sua stessa vita, ma che forse aiuterà a ricucire quel legame un tempo così saldo e rassicurante che le aveva concesso, per un breve tratto di esistenza, di non avere paura.

La ragazza che brucia (Bollati Boringhieri), il nuovo romanzo di Claire Messud è, se si vuole, un libro di formazione, ma anche una disamina complessa e profonda di come, da adulti, rielaboriamo in prospettiva ciò che abbiamo vissuto negli anni dell’infanzia, quegli anni cruciali in cui tutto sembra possibile e le amicizie destinate a non finire mai.

Messud, nata nel Connecticut e cresciuta tra Stati Uniti, Australia e Canada. Vive a Boston con il marito, il critico letterario James Wood, e due figli. È autrice di I figli dell’imperatore (2007) scelto come Miglior Libro dell’Anno dal New York Times, dal Los Angeles Times e dal Washington Post. I suoi romanzi When the World Was Steady e The Hunters (composto da due romanzi brevi: La donna del martedì e La paura del desiderio) sono stati finalisti al PEN/Faulkner Award; il suo secondo romanzo The Last Life è stato il Miglior Libro dell’Anno per Publishers Weekly e per The Village Voice. La donna del piano di sopra (Bollati Boringhieri, 2013 e 2016) è stato il Miglior Libro dell’Anno per The New York Times Book Review e The Washington Post.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Il padre di Cassie era un mito tanto quanto il ragazzo annegato. Non perché avrebbe potuto anche non essere reale, ma perché Cassie non lo aveva mai conosciuto. O meglio, non se lo ricordava. Tranne la faccia: Cassie diceva di ricordarlo chino sulla culla, con gli occhi azzurri, e di ricordare il senso di protezione quando la teneva nell’incavo del braccio – ricordi infantili, dai bordi anneriti come una vecchia fotografia, ma indelebili. Era stato lui a scegliere quel nome, Cassandra, perché lo considerava il più bello di tutti. E da lui aveva preso anche le ossa da uccellino e la predisposizione per la matematica, o almeno così le aveva detto Bev. E l’amore per gli anelli di cipolla fritti. E le orecchie a sventola.

Mio padre è così presente che in pratica non lo guardo neanche. Non con attenzione. Gli voglio bene, tantissimo, ma in un certo senso lo vedo appena. Fa pessimi giochi di parole, e ogni volta io e mia madre emettiamo un gemito. Si arrabbia quando la mia roba si accumula nell’ingresso, e io alzo gli occhi al cielo. Conosco la sua faccia così bene che non mi rendo conto dei cambiamenti – l’altro giorno la mamma mi ha fatto notare che metà dei capelli di papà sono ormai grigi: quand’è successo? Come ho fatto a non accorgermene? Mio padre ha detto che la famiglia serve a questo: chi ti ama ti vede sempre nella luce migliore, come tu vuoi essere visto. Mi ha fatto credere che non fosse solo una questione di disattenzione.

Per Cassie, invece, era come se il padre fosse dietro una spessa tenda nera con qualche piccolo buco qua e là. Cassie doveva avvicinarsi a quei forellini, sbirciare e cercare di mettere insieme la sagoma completa del padre con il poco che riusciva a cogliere. Bev le aveva raccontato un migliaio di volte com’era morto. Quando Cassie era nata, abitavano in una fattoria circa quaranta minuti a nordovest di Boston, e Bev, anche se aveva concluso il programma di studi, non aveva ancora l’abilitazione di infermiera. Il padre di Cassie, Clarke – «Clarke Burnes, bel nome, no?» sussurrava Cassie quando ne parlavamo, come se fosse una star del cinema, come Clark Gable o Harrison Ford – aveva due impieghi, per guadagnare abbastanza fino a quando anche Bev avrebbe potuto cominciare a lavorare. Era insegnante di biologia alla scuola media di Belmont, nel Massachusetts (l’avevamo cercata su Google Earth, una volta, per vedere l’edificio), e poi tre volte alla settimana faceva il barista in un pub di Brighton, che, come spiegò Bev a Cassie e Cassie spiegò a me, è praticamente a Boston. Cassie sapeva anche quali giorni – il giovedì, il venerdì e il sabato. Un venerdì notte di febbraio, mentre da Boston guidava verso casa sotto il temporale, e Cassie aveva appena undici mesi, aveva avuto uno scontro frontale con un’altra macchina che aveva invaso la corsia. Un ubriaco. Bev raccontava di essersi addormentata e svegliata alle quattro del mattino, con Cassie raggomitolata nel letto, senza Clarke. Non era rientrato, e non rispondeva al cellulare. In genere non era apprensiva, quindi aveva pensato che Clarke si fosse fermato a dormire da un amico a Boston, come ogni tanto faceva, e aveva provato fastidio, perché era sabato, avevano programmi per la giornata e ora sarebbero stati in ritardo per tutto. Si riaddormentò irritata con Clarke e si svegliò di nuovo verso le sette, seccata, ma poi alle 7:30 arrivò una telefonata della polizia e Bev venne a sapere che Clarke era morto.

Da allora, aveva detto Bev a mia madre, e mia madre a me, si sentiva in colpa per aver provato fastidio, per aver pensato male di Clarke, che se avesse potuto sarebbe certamente rincasato. Per Cassie, Clarke Burnes era come un angelo. Era convinta che la tenesse d’occhio e la proteggesse. Faceva sogni in cui erano insieme, sogni sempre belli, dove arrostivano marshmallow o giravano in bici, o dove lui le rimboccava le coperte prima di dormire e lei memorizzava la sua faccia, la faccia che ricordava da quand’era una neonata in culla. A otto anni, Cassie aveva sentito la voce del padre risuonarle in testa – lei sapeva, chissà come, che era la sua voce – e dirle di non camminare sul ghiaccio di Long Pond a gennaio. Stava passeggiando lungo Audubon Loop con la madre, ma era corsa avanti con una gran voglia di giocare a slittare sulla neve; e proprio mentre stava per saltare giù dalla riva, la voce le aveva detto, Rimani con me, bambolina. Rimani qui sulla riva. Cassie diceva così: l’aveva chiamata «bambolina», e solo sentire quelle parole le dava un gran senso di sicurezza. Lui era con lei; non era mai sola. Niente a che vedere con un qualsiasi fantasma dei cartoni che infestava la cava. «Ogni tanto» mi disse una volta, «sono assolutamente certa che sia vivo. Non solo nella mia mente, ma anche nella vita reale. Come se fosse dietro l’angolo, come se mi stesse aspettando sul serio. Perché lo sento davvero vicino, capisci? Come se fosse qui con me. Gli angeli» sussurrò con fervore, «esistono davvero».

(continua in libreria…)

Traduzione di Costanza Prinetti
Prima edizione maggio 2018
© 2017 Claire Messud

Titolo originale The Burning Girl
© 2018 Bollati Boringhieri editore

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