Torna in libreria “I sogni di mio padre”, autobiografia che Barack Obama ha scritto prima di divenire il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Per l’occasione, ilLibraio.it ospita una riflessione di Walter Veltroni (mentre al cinema arriva il suo nuovo film, “C’è tempo”)

Questo libro non è ciò che ci si potrebbe aspettare. Non è una di quelle autobiografie scritte da politici o uomini di Stato che, ripercorrendo la loro vita, costruiscono con sapienza un testo spesso autocelebrativo o autoassolutorio. Quando ci si volta indietro, si sente il bisogno di riordinare le cose e di consegnare ai posteri il senso del proprio lavoro o della propria missione nel modo più persuasivo possibile. Nulla di male, è umano che sia così. La vita pubblica, non diversamente da quella privata, è un inevitabile groviglio di errori e intuizioni, di scelte coraggiose e di rinunce di comodo. Si segue un filo – per i più virtuosi i propri valori – e arrivati al termine della corsa si sente il desiderio di ricostruire le tappe del viaggio e il senso delle proprie scoperte. Gli occhi e la testa sono inevitabilmente rivolti all’indietro.

I sogni di mio padre* è invece un’autobiografia con lo sguardo in avanti. Scritta quando la vita non è nel quadrante di sinistra ma in quello di destra, quando la partenza è più vicina del traguardo.

È una specie di Ritratto dell’autore da cucciolo, il libro di Dylan Thomas, autore che di sé diceva: «Uno scrittore versatile come me merita di essere un letterato di successo». Inizia così l’ultimo racconto del volume, intitolato Una storia: «Se possiamo chiamarla storia. Non ci sono un vero principio e una vera fine, e c’è molto nel mezzo».

Obama

Così è per questo inusuale testo di Barack Obama, scritto quando aveva poco più di trent’anni e di certo non pensava che un giorno sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Che questo sia avvenuto, poco più di vent’anni dopo la prima pubblicazione, rende il libro qualcosa a metà tra un romanzo di formazione e il programma di una vita. Non ci sono le prudenze, le omissioni, le autocensure che ciascuno impone, talvolta persino sinceramente dentro di sé, al suo cammino terreno. Tutto è esplicito, dichiarato, non rassicurante. È scritto, mi pare, con spirito di verità. A cominciare dal travaglio identitario, che fin dalla nascita consegna a Barack una complessità che sarà decisiva per i suoi anni di formazione. Figlio di un keniota della tribù Luo e di una ragazza alle Hawaii. Lì Barack Sr. arrivò come primo studente africano ma poi, nonostante avesse vinto una borsa di studio a Harvard, tornò nella sua terra, abbandonando la famiglia. E il piccolo Barack si trovò nella condizione di trasferirsi, per un altro amore della madre rivelatosi poi sfortunato, in una sconosciuta e ostile Indonesia. Scriveva lettere ai nonni materni, rimasti nelle Hawaii. Ma erano lettere che nascondevano la durezza e persino la violenza che si spalancavano davanti ai suoi occhi: «Non gli parlai mai dello sguardo vuoto dei contadini che camminavano scalzi per i campi bruciati dal sole chinandosi ogni tanto per raccogliere un grumo di terra che si sfaldava tra le dita per quanto era secco, né descrissi mai la loro disperazione quando, l’anno seguente, le piogge incessanti spazzarono via i campi e si riversarono sulle strade entrando nelle case obbligando famiglie intere a scappare e portare in salvo le capre e le galline, mentre buona parte delle baracche crollava al suolo». Barack guarda il mondo, come ogni adolescente. E viaggia. In due direzioni: la definizione della propria identità e la ricerca di un padre lontano e poi perduto. Un padre del quale gli rimasero le foto scattate davanti a un albero di Natale nel corso di una visita in famiglia: lui con un pallone da basket in mano, il papà con una smagliante cravatta arancione.

«Ciò che si è fatto strada in queste pagine è il racconto di un viaggio personale e interiore: un ragazzo che cerca suo padre e che attraverso questa ricerca vuole trovare il significato della sua esistenza di nero americano.» Così il futuro presidente definisce le pagine che leggerete. Per me, che nella vita ho frequentato gli stessi gorghi di affascinante vuoto e la stessa assenza di una figura maschile di riferimento, è facile capire il lavoro di ispezione che Obama ha iniziato quando, nella terra rossa del Kenya, davanti alla tomba di suo padre, ha razionalizzato il bisogno di ricucire le sue origini.

Obama è figlio di una coppia mista. E, come scrive, «nel 1960, l’anno in cui i miei genitori si sposarono, l’espressione incrocio di razze descriveva ancora un reato nella maggior parte degli Stati degli usa. In molte zone del Sud mio padre sarebbe stato impiccato a un albero semplicemente per aver guardato mia madre nel modo sbagliato, mentre nelle città più evolute del Nord gli sguardi ostili e i pettegolezzi avrebbero spinto una donna nella situazione di mia madre a un aborto clandestino o come minimo a lasciare il bambino in un convento lontano che avrebbe provveduto all’adozione». Il libro è il racconto dell’introspezione legata a questa condizione e, al contempo, del farsi strada di una forte coscienza del valore dell’identità legato a una idea non «nazionalista» dell’essere neri. Obama rifiuta la prospettiva della separazione, che vede come una rinuncia, e sceglie quella della lotta politica per affermare una società dei diritti, delle opportunità e dell’uguaglianza. Sceglie di impegnarsi come coordinatore di comunità. Comunità: una parola che in questo libro torna molte volte. Sia nel senso di affermare l’identità – la comunità nera –, sia in quello di costruire – attraverso l’inclusione sociale – una comunità aperta. «Quello di cui avevo bisogno era una comunità che creasse un legame più profondo della disperazione comune che io e i miei compagni neri condividevamo leggendo le ultime statistiche sulla criminalità o del cinque che ci scambiavamo sul campo da basket. Un luogo in cui potessi stabilirmi e mettere alla prova il mio impegno.»

Si è stabilito, per fortuna. Obama, per me, rappresenta l’esperienza più avanzata di governo pubblico del tempo recente. La sua presidenza ha lasciato un segno che neanche il cinismo oggi dilagante riuscirà a cancellare. E in questi anni non ho cambiato idea. È il pensiero democratico – quello che incorpora radicalità e riformismo, che concepisce la giustizia sociale mai separabile dalla libertà, che crede nei diritti e nelle opportunità – la forza possibile della sinistra anche nel nuovo millennio. Ogni volta che la sinistra, bruciata da cocenti sconfitte, ha pensato di risolvere le sue crisi arroccandosi in una dimensione identitaria e novecentesca, ha finito col dissolversi nel vento. Allo stesso modo si è perduta quando ha cercato di camuffarsi, di diventare moderata o persino reazionaria per inseguire la destra o ha assunto le categorie del populismo per scimmiottare i demagoghi di turno. Facendo così ha smarrito la sua anima e la sua lingua. In definitiva, i suoi valori. Ha perduto il suo popolo e il suo sogno. Obama, il pensiero e l’ispirazione democratica sono, restano, un ancoraggio decisivo per i milioni di esseri umani che non si rassegnano al nuovo «pensiero unico» e hanno nel cuore valori di inclusione e di giustizia ai quali non intendono rinunciare.

Quando arrivò alla Casa Bianca gli Usa erano nel pieno di una drammatica crisi economica. Le scatole di cartone degli stagisti di Wall Street erano l’annuncio di una recessione mondiale dalla quale non siamo ancora usciti. Quando Obama si insediò la disoccupazione era all’8 per cento. Durante i suoi mandati furono creati 15,5 milioni di posti di lavoro e la disoccupazione si dimezzò. Il deficit pubblico lasciato dall’amministrazione Bush nel 2009 era di 1.400 miliardi di dollari, circa la metà (il 47,4 per cento) del bilancio totale. Il deficit di Obama nel 2015 è stato di 438 miliardi di dollari, il 12,5 per cento del bilancio totale. Fu per merito del primo presidente nero che gli usa, dopo anni di discussioni e di veti delle grandi potenze assicurative, approvarono la cosiddetta Obamacare, che ha modificato uno dei più grandi fattori di diseguaglianza sociale e di discriminazione del sistema americano e della vita dei suoi abitanti. E con Obama il mondo si scosse sul tema dei rischi ambientali, fino agli accordi, poi cinicamente disattesi e disdetti, raggiunti a Parigi nel 2015.

La politica estera è stata più controversa e sicuramente sono stati compiuti errori, a cominciare dal dossier Siria. Ma Obama ha combattuto l’idea di un conflitto di civiltà, ha contrastato il terrorismo con fermezza, ha favorito il dialogo in luogo del conflitto, coltivava un’idea multilaterale del governo del mondo, l’unica possibile. I dazi, i muri, il sovranismo e il nazionalismo – una miscela pericolosa e violenta – sono il prodotto della demolizione dei valori ispiratori della presidenza Obama.

Tutto il libro è attraversato da un grande amore per l’impegno civile e per la politica. È anche la testimonianza di come la politica e, ancor di più, la gestione della cosa pubblica, richiedano competenza, fatica, esperienza. Il libro è la storia di un apprendistato politico. E dell’idea che la politica sia fatta non solo dal fascino carismatico di un leader (e Obama è stato, e forse è, il più globale e popolare dei leader del nuovo millennio). La politica è la costruzione di un tessuto fatto di piccoli fili intrecciati da ciascuno.

I ricordi del suo lavoro di coordinatore di comunità gli saranno stati utili quando, nel 2008, promosse la più travolgente campagna elettorale della storia recente. C’erano i social network, usati sapientemente. Ma c’era soprattutto un sogno, capace di mobilitare milioni di persone che si sentivano chiamate in causa.

Perché la politica, quella grande, è sincera condivisione delle ingiustizie e sogno, sempre.

Martin Luther King, quando tenne il più bel discorso della storia politica moderna, non poteva immaginare che dopo qualche decennio un presidente nero si sarebbe insediato alla Casa Bianca. Allora ai neri, in molti Stati, non era permesso salire sugli autobus e frequentare gli stessi bar o le stesse scuole dei bianchi. Quel discorso segnò la storia, e fu merito di un leader. Ma se davanti a lui, lungo il National Mall di Washington, non ci fosse stato nessuno?

Se il mondo è cambiato è merito anche di quelle centinaia di migliaia di neri, i cui nomi nessuno oggi ricorda, che attraversarono l’America per esserci, quel giorno.

Eccola, la vera politica. Quella che ha segnato formazione, esperienza e sogni di Barack Obama.

© 2019 Walter Veltroni

 

Nota*: I sogni di mio padre (traduzione di Cristina Cavalli e Gianni Nicola) di Barack Obama, uscito per la prima volta nel 2007 da Nutrimenti, torna in una nuova edizione proposta dalla casa editrice Garzanti.

 

 

 

 

 

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