Incontro con Wilbur Smith autore di Orizzonte ISBN:8830419508

Primo quarto del Settecento. La “Courteney Brothers Trading Company” prospera, e il nome dei Courteney viene pronunciato con rispetto e devozione da tutti gli abitanti del Capo di Buona Speranza. Ma l’ardente sete di avventura di Tom e Dorian non può essere spenta né dal buon andamento economico della loro società né dalla tranquilla situazione familiare. C’è qualcosa nel loro sangue che li spinge a sempre nuove sfide. Quando la natura chiama con una voce così irresistibile nessuno può opporsi; tantomeno i figli Jim e Mansur, che guardano con occhi colmi di aspettativa l’orizzonte africano dove cielo e mare si confondono in un blu indistinto. Nuovi luoghi selvaggi, inesplorati e misteriosi attendono i Courteney e i lettori che vorranno spingersi al di là di quella linea blu immaginaria. Prosegue così con Orizzonte la plurisecolare saga della famiglia Courteney dalla fine del Seicento a quella del Novecento, dal cuore dell’Inghilterra a quello dell’Africa. Lo scrittore sudafricano ha scelto ancora una volta l’Italia per presentare in anteprima assoluta la sua ultima fatica letteraria e ha accettato di buon grado di parlare con noi di questo nuovo romanzo.

D. Con Orizzonte si compie un passo ulteriore verso l’epoca di Sean Courtney, protagonista del Destino del leone. Sta per avverarsi il desiderio dei suoi lettori più affezionati, che vogliono conoscere le vicende complete di questa grande famiglia. È in questa direzione che si muoverà in futuro?

R. Io non ho un piano predefinito. Devo aspettare che le storie si presentino e si annuncino a me. Soltanto allora posso continuare a riempire il vuoto cronologico. Io vedo la mia saga come una sorta di collana, a cui aggiungo di volta in volta le perle intermedie, avendo già definito le due estremità: Uccelli da preda e I fuochi dell’ira. Mi dà un grande piacere il pensiero di poter un giorno ultimare la collana con tutte le sue preziose perle.

D. Spesso nei suoi romanzi compaiono figure femminili di grande perfidia oppure donne vittime di sadici carnefici o di un atroce destino. Quali sono i motivi di questa scelta narrativa? Forse, scrivendo, lei pensa a un pubblico maschile o ritiene invece che siano proprio le sue lettrici a voler ascoltare storie così crude ed estreme, che le riguardano in prima persona?

R. Innanzitutto devo dire che non penso mai a quello che possano desiderare i lettori. Quando scrivo una storia, la scrivo esclusivamente per me. Ho imparato molto presto, già ai tempi dei miei primi tre libri, che non ha senso cercare di indovinare ciò che potrebbe piacere al lettore. È una ricetta perdente che porta a un disastro assicurato. I miei personaggi agiscono come è naturale che agiscano per come sono strutturati. Spesso capita che i personaggi femminili sembrino all’inizio della storia molto gentili, amabili, femminili per poi diventare, nello sviluppo della trama, più avidi, aggressivi o addirittura crudeli. Le donne, e i miei personaggi in generale, mutano la loro natura nella stessa misura in cui cambia il mare, cambiano i venti, si alternano le maree.

D. Vorrei riferirmi brevemente a due episodi del suo romanzo. A un certo punto Kadem viene sottoposto a una terribile tortura fisica, a cui resiste stoicamente. Quello a cui non resiste è la pelle di cinghiale che i suoi torturatori gli sventolano davanti, ben conoscendo la sua avversione per quell’animale considerato impuro. Qualche pagina prima gli indigeni “Impi” non avevano esitato neppure per un momento a buttarsi tra le braccia della morte per assecondare il volere della regina, creatura mistica e quasi soprannaturale. Allora è proprio la religione la molla più forte che guida le azioni umane?

R. Questo vale per determinate persone, soprattutto per quelle più devote per le quali la religione è al centro dell’esistenza. Per riscontrare questo nella realtà non dobbiamo certo andare molto lontano nel tempo. Pensiamo a Bin Laden e ad altre figure militanti religiose, che sarebbero disposte a soffrire qualsiasi tipo di tortura e a commettere qualsiasi atto, che noi considereremmo un crimine contro l’umanità, nel nome del loro Dio. È il caso del mio personaggio, che sopporta le più terribili pene fisiche, ma non tollera che venga toccato un pilastro della sua fede.

D. La scena della caccia all’elefante è uno dei momenti più emozionanti del suo libro. Si tratta di un momento chiave per almeno due personaggi: Jim realizza il suo sogno, mentre Louisa è fiera di condividere un simile momento con un uomo tanto buono e coraggioso. Lei non si pone mai il problema dell’eventuale reazione negativa dei suoi lettori davanti a questa o ad altre scene di caccia, soprattutto alla luce del crescente interesse per le tematiche relative alla tutela dell’ambiente?

R. Non metto in dubbio che ci siano moltissime scene del mio libro, che possano turbare la sensibilità dei lettori. Credo però che questa sia, in un certo senso, una qualità del mio romanzo. Una delle cose che personalmente cerco in un libro è proprio l’emozione. E io sono contento quando sono in grado di procurarle ai miei lettori. Non dimentichiamoci inoltre che stiamo parlando di un’epoca in cui la vita era diversa e tutte le opinioni e le convinzioni morali sulla schiavitù, sulla guerra, sulla religione, sulla caccia agli animali selvatici erano radicalmente differenti. L’istinto di cacciare poi è sempre stato presente nell’uomo. Fin dal giorno in cui è sceso dall’albero e, dopo aver assunto la posizione eretta, ha cominciato a prendere in mano i primi strumenti. Chiaramente la caccia era un’attività centrale, indispensabile per la stessa sopravvivenza. Ma questo istinto non è affatto scomparso. Ogni sabato e domenica ci sono milioni di persone in tutto il mondo che si ritrovano per giocare a tennis o a golf con una racchetta o una mazza in mano. Quindi con un’arma. Racchette e mazze non sono forse un sostituto simbolico di un’arma? C’è ancora moltissima gente che ama andare a caccia e io sono fra questi. Amo la natura e gli animali selvatici, ma amo anche cacciare. È un fatto naturale. Le armi hanno sempre accompagnato la storia dell’uomo e hanno rivestito addirittura un significato religioso. Prendiamo ad esempio la spada di Re Artù: non si tratta di un semplice utensile di acciaio, ma di un oggetto dal profondo significato simbolico/religioso.

D. Le pagine dedicate alle tribù africane sono forse quelle più fresche e vitali del suo romanzo. Malgrado la violenza e la brutalità degli “Impi” e delle altre tribù, è forse lecito provare un po’ di invidia per la semplicità della loro vita. In fondo a loro bastava un cielo azzurro sopra la testa e una terra fertile sotto i piedi per essere felici. Lei come vede l’Africa del futuro? Crede che la sua terra possa mantenere in qualche misura quel carattere selvaggio o anche le sempre più rare oasi primitive sono destinate a soccombere sotto i colpi della globalizzazione e delle multinazionali?

R. Il processo di cambiamento è già in atto da tempo. Nei miei romanzi descrivo tribù in grado di vivere grazie alla caccia e alla raccolta. Ma questo modello di vita così semplice può trovare applicazione soltanto in un mondo caratterizzato da popolazioni assai limitate e dalla disponibilità di enormi terreni. Una tribù di cento persone era già un agglomerato straordinario per quell’epoca. Il loro impatto sulla flora e sulla fauna era minimo. Le rozze tecnologie e i rudimentali sistemi di caccia non potevano arrecare grossi danni né alla sopravvivenza delle varie specie animali, né alle aree agricole. Tutto questo è cambiato. In molti casi abbiamo la tecnologia che consente di creare grandi devastazioni all’ambiente senza possedere però la responsabilità sociale e la coscienza necessarie per gestire la terra nel modo più corretto. I boscimani che io descrivo non vivono più in quel modo perché nella loro vita sono stati introdotti molti elementi della vita occidentale. Ad esempio l’alcool che li devasta, così come avviene per gli aborigeni australiani, oppure le malattie di cui è stato portatore l’uomo bianco. Per non parlare dell’aids.

[Intervista a cura di Marco Marangon]

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